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21
Gio, Nov

ANTOLOGIA DELLA CRITICA:

Emilio Villa

Giancarlo Altamura

“Un inequivocabile Offertorio, ineluttabile Pandaemonium, carteggio di Preda, consulta e conia l’intemerato pittore Giancarlo, Giancarlo Altamura. Conversa in controfagi, in controconoscenza con delizia con il suo corale miniato, il suo messale aggiornato alle ultime apparizioni e sparizioni... ”

Un inequivocabile Offertorio, ineluttabile Pandaemonium, carteggio di Preda, consulta e conia l'intemerato pittore Giancarlo, Giancarlo Altamura. Conversa in controfagia, in controconoscenza con delizia con il suo corale miniato, il suo messale aggiornato alle ultime apparizioni e sparizioni.e esegue, razzolando ruspando e carezzando, elogiando e rissando, il suo teatro immaginario: allena, alleva, allucina il suo figuramen, in lieto svelto improbo corusco dirompimento di corpi, onduloidi somatizzati in liquido ipnotico, amniotico, in anamorfosi conformativa, in fioriture e sfiammate zoonomiche, in travasi e incroci di limitari, di stanze, di finestre, di oblò, con rifacimenti, inversioni, conversioni in iattura di umanoidi, e cattura di figurali emisferi descrive le guizzanti curve antropologiche zoologiche omeologiche, con fare da incantatore di anime attrici, fattrici, sbaraccando sbaragliando sbagliando sbavando arti e membra portanti, e membrane visuali, vistose; traccia e straccia superfici di sgomento arcaico attualizzato, sempre cosi titillando ilMonstrum lconico, che ogni tanto perde il Sonno, aggio perduto u suonnu, anema mia; e perduto ha il suono, ogni tanto, e ricrea momenti (come qui, talvolta, monumenti propri e yeti) della conchiglia o del labirinto o della trappola sciancata, della circolante Immaginetta brava; faccia incatenata che nasconde le sue catene d'aria, il mostro zoppo che simula l'anchilosi, il mostro elettrico eclettico epilettico che svela la sua ancora veneranda età, la sua anzianità, il mostro erotico che svola da natica a natica, da scapola a scapola; e di la dal Ciel ti aspetta il Pappagallo Perpetuo, il Cunigondo, il Finimondo con il suo grande Prurito cosmico, e col becco arrotato, e ti aspetta il Papà passero dell'allegria congegnata, sgrattata di sott'ascelle, nell'ingenerato sistema di nuova, innovata procreazione, mescolando e muscolando oggetti di figura, di feticcio, e sguardi a ventola, risguardi sgualciti, maschere e pezzi di Assenza Mentale, ma pensosa; e ripensata pittorescamente in bei colori della raucedine, in pulsante verderame verdebottiglia, e in roggio penitenziale, in ocra proteica, nei brevi intensificati, immensificati luccicori di Mo(nu)menti imperturbabili, di imperturbabile lemma, quasi flemma, di acidità, di accidia, di piccola ma delicata veemenza, e insomma tutta la migliore e più spuntata e spudorata e sputata ieratria, anzi ierolatria furbesca, invasata, e qui voglio istintivamente neapotitana, che è dolce e scintillante Umore-Amore, come un rito perennemente inastato della Sfera del Sunreale intatto (tramite di surrealismo e di lussorealismo); e certo sì, con ammicchio furbesco, di meravigliosa, attanagliata manutenzione (pittorica; ripetiamo, bellamente pittoresca, perchè con intelletto etnico veramente pittata), di policromia istituzionale, ma divorata e vorace, strenua a Bel Passo e Contrappasso, di colorimenti a brace, di incendio pulviscolare paventato, per watch iridati, per soft ward di tonalità irritate, tinte in chromos audace, in timbri di trasparenza e in velature chirurgiche (il nostro pittore, ritagliando i personaggi fa anche `operazioni' vere e proprie, `operazioni' ginniche e contemplative; e così sveglia (a suon di watch, a voce), intima, registra, grafizza i soffusi fiati in giallonapoli, in rosacanina, in verdaccio; che Sono i numeri e ratei di quel fluido Umore di cui vive l'Incubo, e il Gaudio Tecnico e il suo processuale incatesimo di degrado, di deperimento, di annaspo, di discesa e risalita ad Inferos, corale: di coro di zoomorfemi di zooplastica, e ricostruisce l'impaziente imperioso, scattante registro-zodiaco dell'Anatomico, dell'Anatomozoico irredento, un po' irrisorio, ma no, proprio legittimato dal suo stesso apparire in scena e in oscena; dove c'era il creato e la creazione affaccendata, produzione malinconiosa e dimostrazione mutrignona, miticologica e matrigna, con facce arcigne e sorridenti risvegli: lì il pittore così fatto, come Altamura, soffice arguto e surreale egli stesso, di nuova impennata, di pennellata divinante, gestisce, come s'usa dire, lo spettacolo della Decreazione-Ricreazione, caudata in gerghi e splendori anche lucidamente poesiaci.

Ed e' un gran bel Pittore, un po' mago, un po' rapito, un po' sciamannato, ma bello bello.
Dopo mangiato e bevuto un bel colore, sempre prigioniero dell'ebete fascinosum, horrorosum, obscurum, dissimula, quasi occulta, adombra l'intero paradigma della Dissezione, risuturata in tralice, in treccia, in annodi, in dissolvenza, come riverberata da rito anziano; così si diceva ‘operazione’ di ispirazione chirurgica. Altamura cerca varianti, svariazioni permanenti, permanenze mutevoli ma ferme, abimo: assiste il nascere umile, l'affievolirsi e il morire (il colore che si mangia le figure, sbaraglia le iconi, architetta gli ambienti, tutti psichici e parapsichici) dell'enfasi rigenerante e dei flussi di condizione, nel densamente spopolato, anademotizzato, spazio: dove si avventano i rischi e le ipotesi del memoriale incompiuto, che non dura, instabile, sotteso, extra mentem, extra orem, extra rem; il progettino umano, agito in cute, in corpore minore, e assediato dall'economia vacua dell'insolenza, dell'invettiva, del sogghigno e della grinta: e vi si illuminano le sismatiche/sistematiche, scismatiche/sigmatiche conseguenze delle forme `umane' e ‘disumane'. E il crollo a memento delle profughe Evenienze, alle soglie elastiche del colorito allietante, o riverberante, o accecante, pus pure purum, per la confezione del traslato, dell'anafora, della ideazione, appunto, del Mostro; cui e destinata la vulnerabilità, la prestanza, il sequenziario dell'Immaginazione retrattile, in corde sex-cretae katastrophis, di vapori liturgici, cerimoniali di brume paonazze, di paludose ombre. Cosi conscrivere, conclamare in annessi e connessi di lontana corporeitd e di modellazione sussiegosa, un adeguato firmamento di ombre e velari intorpiditi, di abbagli e barbagli, di fantasinergia (energia di fantasmi recuperati) ridotte all'impotenza migratoria, incastonate nella muta suggestione, risultate (saltate fuori) dalla sublime Incoerenza, nostra grande e vistosa e amata Madre, e della epicrasia dei simulacri sdoppiati, squartati, snobbati, sbranati, riveriti, adulati – non come pagliacci di un teatro improprio, ma come allusioni proprie e intense dell'uomo vivente; presso il quale e depositata l'immagine–atmosfera, il ritratto-tempo, che si separa in occasioni mistiche, discordi, discorrenti: segnali e stigmate della fatalitd, depittata, ingegnata, captata in attestazioni idolatriche, iconotopiche, relative agli appellativi ironizzanti della Credenza nell'Uomo Trasognato, homo transomniatus, ma Uomo Transvivente, un ultimo prodotto, plurigenito, della nostra festosa abilità di emendamenti, di correzione e, metti pure, per rima fonetica, di corruzione della Mens-Figula, Mens-Figura, che e appunto l’Homo-Humus: uomo astruso, uomo ripresentato, arruolato, che indossa astrusi vecchi per diete a specchi, per diete liturgiche, diete chirurgiche, diete erotiche, o disagi di vista, o dirompenti turbe, o paraninfiche testate. Che fa sposa e spesa a colpi di Lacerti di Fantasma, panieri di scudimenti di Atmosfere, minced-meat di Larve in the Flash, per muovere Nebula e Abbaglio, per agitare il Misseeming: e vi si accosta e vi gareggia il pennello minatorio ma bonario, accarezzante per fili diretti, pennello come flesh-colour, flesh-chrome, in prospettiva tremolante, vacillante, e infine a recupero della Posizione Attonita (anche di Atonement, cioê di espiazione), che 6 poi l'inquadratura, in luce stirata, compita, devoluta al simbolo, e all'idea eterea, empirea, e ad estroso suffumigio da iconostasi.

E siamo giusto alle fontane del Nulla-Prospettico, del nulla inusitato dentro l'UovoVessillo, (es)agitato, dove le persone vagano e s'impuntano come poveri feti, avvolti in manti di luce a olio, in sacche di ombre, in nozioni di sarcografie ideali. Il pittore cerca di trovare gli occhi in tutti gli elementi, occhi nell'intimo dell'enigma della sostanza e della sua proiezione, della sua immagine come se fosse chimerica; il trauma della consolazione, taumargia e chimismo, e la gioia della connotazione riuscita: le immagini come schema e appuntamento di comunione e di scomunica, extra-vagante, purissimamente formalizzata, congeniale e anaplastica, immagini espulse dall'OmbraUovo (Ombra-Uomo), e instaurata in composizione inoltrata, come propri coniugii o propri congiunti, parenti masticati nel pasto cultu(r)ale, o flashes sudoriferi di ricostituzioni di ricostituendi di sagome e di siluette, di profili facciali e tergali, di envergures prototipe: con linearità e precisione, cadendo tra membro e membro, tra occhio e occhio, tra tempia e tempia, l'ombra che separa l'essere dall'esemplare, l'uomo da Dio, il dio dall'animale, l'animale dal dêmone, il dêmone dalla persona, la persona dalla maschera, la maschera dal muscolo, il muscolo dal santo, il santo dal totem, il totem dal cardinale, il cardinale dallo scetavaiasse: e, insieme, nel rosso-rosso, la vista qua e ld del buon sangue, per far anche ridere, se ridere fa buon sangue, e il sorriso lasciato elementare/alimentare, intatto e sofferente fermo meccanismo, per dire, confermare, testimoniare e sottoscrivere che tra fantasma e uomo, tra pittato e ombra, tra immaginazione e natura la differenza e minimissima, proprio appena un filino, una filitura, c'è scarsa e involontaria separazione; e che e tutta contigua la soddisfazione della vita e della morte, inseparabili a vista: segnalata in campitura come soglia di territorialità estranea, dove it pictor bonus (l'optimus e morto, e in fondo non era poi un gran che, come pictor) esclama: questo e il mio corpo, il mio doppio corpo, anzi, che si sdoppia, si slarga, si informa e che in sostanza si danna per dannare la reverenda riverita society: laddove appunto nessuno di not sa, non abbiamo ancora saputo o decretato, come si testimonia la pietas del pictor, con i suoi stravolti dentro il regime del quadro; come corpo o come figura? come sangue o come acrilico? come velo o come menzogna? come carico e come (di)pendenza? metafora o ritratto? La figura insomma a cercata, frugata nelle vene del Paraclito, cioè il grande invisibile Avvocato, arroventato e stralunato, cui chiediamo informazioni legittime, risposte persuasive.

Proprio le figure da cuocere nel Toro brodo, con calzini ne corti ne lunghi, ne raviglia, ne menichi obliterati, ma tutto. Pollici alianti e cupole arboree, e involucri di duramadre, e gomiti infidi, e corpi sine pondere umidi, in chiaroscuri scarlatti e vestiti cheratinosi, con ghiandole postume, espressioni scostumate per fortuna, e espressioni impermeabili, falli e fallacci idiomatizzati in parate nuziali olivastre, in colon risparmiati da candide economie e brillanti in pennellate da affondo per caso: attraverso tutti i tramezzi del corpo, Crete e spifferi di brezza iridate, i suoi rumori di masticazione o di sogneria, a occhi di nuvola disseminati e predati dallo zufolo e dalle repliche: umori di fine-contesa, incantamenti sbandati e scartamenti di dopocena cruenti, maculati, con vaghe insufflazioni intelletuali, un po' per tutto sparse, in attesa di buone ragionevoli tenebre di spazio: e l'Altamura e Id pendolare, pensile, pendaglio, pena e incresciose sensazioni in luce abat-jour. In interni tremolanti e sciallati; e le atletiche coloristiche versatili insinuazioni di sotterfugi e intrighi, come con colori che hanno la premessa di alfe tossicitd, timbrature di erosione e corruttela, ammicchii cromatici di fertile riluttanza insieme a fresca tonality di reperti antiquariali di solaio (sole, solarium) e di cantina (canto). E' un po' così, o in modo non del tutto diverso, che Altamura convoca il suo venturato tiaso, corale con musiarmati, di code-spade, di schiume caricati di rostri aureoli di pupille inguainate: estrarre il fossile dall'ombra e iattare/iettare, ieratico potere sull'ombra stessa, in aria di ben arguto cordiale devoto feticismo, anche un tantino tenero, come sangennariano di alta categoria, con brodatura (brodee anche) di sanguigna dorata long-vehicles dell'hypnos arrovesciato, spenta o incendiata, smembrato, sderenato, cardiaco, di fasi acute, air-forced del viaggio di inversione gnostica, di terrorismo metabolico, di acrobazia miocardica: per la rete dell'orrore ipercinetico e inviolabile, dove si spaccano le ovaie, le trombe, i padiglioni, e tante alterazioni, riduzioni, contrattilitd. Sono i colori ripercossi dal colorito, l'embolo dove il divino metaforico si rompe in quattro, o tre, ventricoli, o nuclei genitivi, genetici, in paludate essenze; variazioni di onde anamorfiche elettrizzate in onde anatomiche, con strepito con calpestio con sussultorio e con impazienza dinamica di color/calcr/culor; ritmi che sorprese dove si scuotono i ruoli del pathos, si invertono i canini a mordere, si girano i soccorsi del fascino, gli stimoli all'attenzione, all'osservazione dell'Uomo-Mortale, che in ogni quadrato, a opera del pittore, si preconizza, l'indemoniata, o lentamente demoniaca in crescendo, pulsazione crescente, lo scarifico cerimoniale di una bella gnosi, ridanciana, di ghigno, di grinta, di paesaggista, inflazione, di atmosfere incontrate, da destra o da sinistra, o da sopra o da sotto, o da dentro o da fuori, secondo la dicotomia topologica di cui abbiamo gratificato lo spazio – mondano, e che il pittore e chiamato a rendere acuta, per elezione, per selezione. Procreando una allettante insalivata o inselvita velocity metafisica di compenso e di ritmo, baluginante nella metamorfica, maculata di incrostazioni popolaresche e populistiche ( di ascendenze lontane, fino ai cori dimisiaci, agli assi sciamanici); e dentro la quale si annida e si moltiplica l'infelicità del delirio e della vivace ragione gli arbores infelices degli antichi inferni le infemalità nude, e, come grafica, le ramificazioni venose, come queue del principe di Sansevero, nella cappella barocca dei Sansevero; quindi come una specie di ordalia sine practico e sine pondere, pura gratifica di visualità. E contano oramai i pittori incalzati da insorgenti nuove teologie, di ascendenza, come si diceva, 'surreale'.

Ma Altamura e certamente anche di ragione più isolata, più intima, di qualità più accesa, più decisa, perfino più perversa, nel senso della 'inspirazione' totale. Debitamente, a scoppi, scatti e sfaldi di ingegno inventivo, transideante e transmanente al tempo stesso, il nostro Altamura, dalle occhiaie allarmate, scarica e sommuove a caracollo i suoi imbuti di figurazione: quei politropi, politopi, polipi, policromi, delizianti o agghiaccianti, feticci in tronchi di

avvenenza e di presenza pura, intrinati, tramorti, revivali arguiti in sonno e fatica d'essere, di ecchimosi etiche e di rabeschi gestuali, di positure inani e solennizzate, che Sono poi i praecones (diciamo anche, gli spreconi) dei penultimi Regni, poco prima del tonfo del ragno, tra estinzioni parziali intermittenti e orbe reviviscenze (richiami in vitro, evocazioni sperimentali, in liberte sur parole) tra segreti difformi e deformi cordialità (pulcinelliane di istinto), in accezione cerimoniale, celebratoria, in patetismo sceneggiato, in fantasia plurima e promiscua (tra il si e il no, a metronomo, della meschinità quotidiana, dell'impolverato recupero): ma fantasia crepitante, alitante, giocoliera di pittore risospinto furiosamente dalla visuale cronica dell'inseguimento, alla cattura, alla designazione (design, disegn) dell'homo paradocsus, stanato dalla sua caverna scomoda, dove giace rannicchiato e confuso come homo socialis, sodalis, seminalis, e che il pittore ha rivestito, trasvestito, onde anche mettere le brache al nudo; e rendere diafono, trascolorante, l'inquieto, inferno, noioso travestimento del mondo nudo: un contenitore di misura impropria, di arborescenti avarie, di sesso impacciato, di infermo futuro. (cat. a cura di Luca, Edd. LAN, Napoli, s.d. ma 1984).

 


MARIO PERSICO

L'Elegante Teatro Onirico di:
Giancarlo Altamura


“ Spesso non vi è nulla in superficie, tutto è sotto, scavate.” PARACELSO

Mi e’ già accaduto altre volte di dichiarare che qualunque sforzo ermeneutico, foss’anche il più qualificato, non approderà mai alla verità di un "fare artistico". Jan Mukarovsky, in "La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali.", avverte che "i confini della sfera estetica non sono stati fissati dalla realtà stessa e variano sensibilmente", e che "La qualità artistica di un oggetto, anche se esso è stato costruito intenzionalmente rispetto ad essa, si manifesta invece soltanto in determinate circostanze, in un certo contesto sociale: lo stesso fenomeno che era portatore privilegiato della funzione estetica in un determinato periodo, paese, ecc.; può essere incapace di tale funzione in un altro periodo, paese, ecc. ". Da ciò si potrebbe ricavare che la pretesa di certa critica d'arte di afferrare il "sense maître" di un manufatto artistico dipenda unicamente dal profitto che essa determina nel nostro sistema dell'arte. Profitto, si sa, legato alle strategie delle multinazionali della produzione visiva. Tutto questo, sebbene viziato da una vera e propria teologia economica, non è privo d'interesse. D'altronde, anche quest'attività critica subordinata al mercato concorre allo sviluppo dell'attività ermeneutica. Nè è da escludere che qualche critico intelligente e sensibile colga in un "artefatto" più sensi e ragioni di quanti ne colga un altro. La vitalità di un 'opera dipende proprio dalle molteplici e spesso contraddittorie interpretazioni che di essa si danno, lo non sono un critico d'arte, ma semplicemente un pittore che dipinge per quel valore di libertà insito nel gesto stesso del dipingere. Pertanto, quando l'amico G. Altamura mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul suo ultimo lavoro, con l'intento forse di evitare i soliti canali, sono per un momento entrato in crisi malgrado la richiesta mi abbia lusingato. In crisi per due motivi: primo, l'assenza da parte mia di qualunque dimestichezza con la sua produzione pittorica; secondo, la consapevolezza secondo cui la mia capacità percettiva, fortemente condizionata dalla fantasia, non è sempre in grado di operare una sostanziale distinzione fra riflesso e simmetria, fra funzione e finzione. Ma poiché ho accettato l'invito, nonostante queste due non trascurabili preoccupazioni, mi sforzerò di mettere insieme osservazioni che, spero, non risultino del tutto banali. Accade alcune volte che un pittore si serva di clementi compositivi caratterizzanti un certo movimento artistico senza porsi troppi problemi circa l'adozione di quel linguaggio.

Egli vi aderisce pienamente perché quella tecnica, quel gusto compositivo, sono sufficienti, se non indispensabili, alla sua espressione artistica. Forse quel pittore non rincorre alcuna originalità o effetto spaesante, ma semplicemente una sorta di grammatica attraverso cui raccontare i propri sogni e descrivere i fantasmi che affollano i suoi occhi. E numerosi, inquietanti e infidi, sono quelli che abitano la mente di G. Altamura. Sembrano emergere da un limbo misterioso per poi disporsi come attori di un dramma appena annunciato, che prima o poi esploderà nello spazio della tela. Questi artisti sono troppo sbrigativamente definiti manieristi da qualche tenace e ostinato Bellori che impingua la schiera della critica italiana del nostro tempo. Il manierismo come categoria metastorica è, probabilmente, ciò che oggi, con un termine che fa molto cultura, chiamiamo postmoderno. Se assumiamo il "postmoderno" come condizione ineliminabile della coesistenza di "due contrapposte anime", come sostiene R. Barilli, una avveniristica e l'altra di vertiginoso ritorno ai primordi del genere umano, non vedo perché ci si dovrebbe scandalizzare di fronte alla rivisitazione di uno stile del passato o al recupero di certe atmosfere. Ora accade che nelle opere di Altamura l'unico riferimento prendibile è quello relativo ad un impianto di sapore surrealista, mai ad un autore o ad una "figurazione" preesisti. Le sue "presenze" sono apparizioni di una dimensione inconscia, tese a comunicarci qualcosa, ad informarci di un 'esistenza parallela a quella che viviamo. Ma di cosa sono fatte queste "presenze"? Sono fantasmi o archetipi rivestimenti di sontuosi, vibranti colorii Dove stà il confine fra immaginazione e natura, fra ciò che è dipinto e l'illusoria corposità con cui si prestano alla nostra attenzione o ad uno sguardo che è assai più in là del quadro? È difficile dirlo. Un'opera è sempre il prodotto di un'accumulazione mnemonica, di sensazioni, emozioni, riflessioni, vagheggiamenti. Non a caso le sue "figure" proliferano, come per magia, dal groviglio di organismi che attraversano o ruotano intorno ad un nucleo centrale. Organismi non sempre riferibili ad una forma conosciuta, ma scaturenti da una sorta di pulviscolo materico che si diffonde sul piano del quadro in infinite, stupefacenti cromature. Un gioco vie n posto in atto: il gioco sognante dell'infanzia teso ad immettere, in un mondo spesso severo e spento, l'inesauribile teoria di mostri inquieti partoriti dalla fantasia. L'apparato sintagmatico è ricco e originale anche se la diversità degli elementi costituenti il contesto linguistico viene intenzionalmente smorzata dall'uso sobrio del colore. Non so dire se questa sorta di allotropia coloristica nuoccia o no alla rappresentazione.

A me pare che laddove gli elementi che vi concorrono ostentino senza alcun pudore la loro origine la rappresentazione ne soffra. Infatti, le opere meno catturanti sono, dal mio punto di vista, proprio quelle in cui l'autore rincorre la suggestione e l'effetto: l'incontro di un bacino femminile e del becco di un volatile, ad esempio, si consuma e svilisce nella convenzionalità di una maniera fin troppo praticata e per nulla provocatoria. I nessi che altrove G. Altamura fabbrica con sorprendente disinvoltura permettono alle sue "figure" di rientrare in una codificazione tipologica naturalissima che legittima il loro essere nella realtà. L'acuta eleganza, infine, della complessa orchestrazione amplifica la sensazione di teatralità che se ne ricava, anzi tende ad a scrivere alle "figure che vi partecipano come attori, ora tragici ora ilari, il diritto al riconoscimento, al possesso di una tessera d'identità che le immetta, con tutta la loro ambiguità, sul palcoscenico della vita. La forma immaginata, dunque, così poco rassicurante, nasce da un febbrile movimento psichico che invia bagliori all'intera superficie della tela elettrizzandola. Una nuova fauna si insinua prepotentemente nella materialità del nostro mondo, una fauna dell'epidermide scintillante che ammicca alle joie de vivre. "Presenze" che sembrano, pirandellianamente, aspirare ad uno sguardo che dia loro dignità e oggettività.

 


ANGELO CALABRESE

Giancarlo Altamura :

Nella realtà del fantastico, quella che in pittura meglio è resa dall'espressionismo della surrealtà, l'arte di Altamura trova una giusta collocazione, non solo per dignità d'ascendenti, ma anche perchè il suo universo intimo e storico naturale apre un filone per la creatività fenomenologica...

Emozione di rosso

La casa, dell'area umbertina, ha soffitti a memoria di respiri. La porta dello studio è socchiusa e già dalla soglia, che varco di fianco, mi accendo di una straordinaria emozione di rosso: è il vasto fondale di un'opera dipinta. La materia cromatica vibra energetica come mare di fantasia, di rossa, sensuale, intensità, su cui galleggia, plana, consiste, un'isola-congerie di personaggi, fatti, memorie naturali, allusioni ad eventi articolati in un flusso continuo di associazioni, convenute di sorpresa a quella rinfusa sospesa tra evocazione e coscienza. Mi attira un altro grande dipinto dominato dal verde variato dall'azzurro al turchese, e volgendo lo sguardo lungo le opere alle pareti, che fanno scoprire le tappe di un coerente approdo, confermo a me stesso che la pittura di Giancarlo Altamura è forte, curata nel linguaggio prediletto, ricca di risvegli, ricordi e desideri, vitale anche nel senso della vita negata, ma restia alle didascalie e alle titolazioni. La cura dei fondali è per il pittore spazio eccellente per evocarvi la globalità attiva di quel tutto che è decifrabile nei singoli elementi compositivi, ma intanto è intraducibile in una definizione, dato che l'arte, veggente, cartomante, sciamana, ha pro-iettato sulla distesa verticale, proprio come la Sibilla gettava al vento le sue foglie, o il sacro indovino i sassi runici, tutto un armamentario di presenze e assenze, di slanci insopprimibili e memorie immotivate, di coscienza di cronaca e risvegli di natura. L'arte, superando la logica spazio-temporale, si è fatta mare ad accogliere fiumi di flussi di coscienza e li ha raccolti, frante immagini, in isole vaganti-veggenti-di storia a venire, illusioni, continuità biologica, vitalità naturale delusa, ironia di riti di fertilità, giochi propiziatori, guizzi antropologici, come souvenir di viaggi praticati tra allettamenti esotici e anarchie senza gioia dr libertà.

La realtà del fantastico, resa in invenzioni plasticodinamiche, spesso ironizza infatti sulla impotenza dell'uomo che, nel tempo della caducità, propone "simboli" terrificanti e si cerca o interpreta nella frammentarietà caotica e multiforme di una conoscenza che ha radici chissà dove e che fa i conti con la fatalità. La pittura di Giancarlo Altamura, irreale, forte della poesia di forme crivellate da fratture, visionaria, disperata nell'intensità oggettiva e psicologica, naufragio di storia intima e di miti della quotidianità, nei suoi materiali ha tutta la bellezza profetica della consapevolezza del disastro. Le sue isole di frantumi, di relitti, di galleggiamenti, hanno solo l'apparenza della casualità degli accostamenti. La colorazione attrattiva, sapida, a larghe stesure d'orizzonti e approdi, intensa e passionale ad accettare reliquie e sogni ricorrenti, desideri insopprimibili, sconfitte senza resurrezione (non c'è la retorica della battaglia e dello scontro), si anima di risvegli incredibili e di nostalgie di vita negata: i colori di Altamura sono d'arcobaleno, proprio perché si configurano come un ponte che raccorda l'universo presente con perdite irrevocabili. La legge intuita e verificata è una costante nell'opera di questo artista che nelle alternanze della vitalità riconosce "chi succhia e chi è succhiato", chi sperpera, chi sciala con le energie di chi magari eccede nel sentimento, o è colto alla sprovvista, e chi si svuota inesorabilmente. I "fatti esterni", resi in pittura come immediati, stimoli emozionali, la catena di immagini-eventi, consciamente o inconsciamente motivati, mi hanno d'impatto riportato alla poetica delle macerie del passato intuita da Thomas Stearns Elior e resa in frammenti e rovine, nei contrasti tra veri materiali, ne "La terra desolata".

Il flusso di coscienza impersonale di Eliot, la veggenza cieca di Tiresia, è nello sciamano di Altamura, nelle piaghe, lacerazioni, fratture di quell'ideale umano che ancora talvolta brilla luce. È infatti straordinaria la luminosità che accende, fino alla trasparenza, la sommità del petto, del respiro, della spiritualità dei suoi personaggi sperperati e trafitti nelle altre membra vitali. L'acqua che mai si configura nella sua naturale resa d'immagine è nella pittura di Giancarlo Altamura costantemente ritualizzata ed esorcizzata. Le valve terribili, dischiuse alla giusta sensuale dimensione che rende agevole al sifone della "fasolara" di ingurgitare la sua vittima, sono pelacee, ma posano su rosso di una stesura che metaforizza il contesto e lo affida alla realtà del fantastico. Il mito della sessualità nell'opera di Altamura è inserito tra le illusioni della storia intima-universale, tra galleggiamenti e naufragi: tra i reletti affiorati com'isola tutto ciò che si organizza in congerie, si ritrova in oscura e caotica consapevolezza di essere frammenti ignoti a se stessi, vittime di una tortura che non ci fa vivi e neppure morti definitivamente: l'isola galleggia, vaga, tra oriente e occidente, tra richiami esotici e repulsioni nostrane. L'uomo universale, il pittore Giancarlo Altamura, ha consapevolezza d'essere, come gli altri, un naufrago nella disumanità incalzante: la vitalità è resa impotente perchè incapace di rigenerarsi nella spiritualità, gli annegati sotto le maschere, Sotto gli ammanti asfittici che sono bende e corazze d'isolamento, di discriminazione, mai corazze contro le trafitture, sono destinati allo sperpero. Nella realtà del fantastico, quella che in pittura meglio è resa dall'espressionismo della surrealtà, l'arte di Altamura trova una giusta collocazione, non solo per dignità d'ascendenti, ma anche perchè il suo universo intimo e storico naturale apre un filone per la creatività fenomenologica, perchè la persistenza di elementi connotabili quali simboli e la resa epifanica della "rinfusa", nata dalla pittura d'impatto e non dal progetto, si convogliano "ad unum" come fatti "agiti". L'artista sciamano li affida al destino che egli ha concesso la veggenza di quella fenomenologia la quale è dovunque e in nessun luogo. L'ermeneuta poi vi scopre le catene d'immagini-eventi che hanno radici ancestrali.

Il pappagallo, memoria di un uccello esotico, attrattivo nei colori dell'arcobaleno, la bellezza muliebre, la trasmutazione, orme e tracce dell'età dei desideri, ricordi d'Asia e d'Africa, la natura come scenario irrinunciabile, gli ammiccamenti metafisico-surreali, l'evocazione, le parvenze mutevoli le reliquie ed i simboli, rappresentano occasioni d'accesso all'isola e alla rinfusa sine titulo, e perciò più misteriosa e allettante. L'artista contempla gli inquieti mutamenti che inventa in libertà fantastica e li conforta con la bellezza del colore, con la poesia di un rimpianto che dall'esperienza si risolve in una condizione universale estremizzata. Forse i relitti dei nostri signi e delle nostre avventure approderanno, spinte da chissà quali maree giustiziere (come le armi di Achille strappate dalle onde alla nave di Ulisse e consacrate meritamente alla tomba di Aiace), alla nostra essenza libera solo nel mare dell'essere. L'essenza della pittura che respira e sconta l'irragionevolezza della vita nel caso di Altamura gioca due ruoli precisi: la fantasia è infatti introversa ed estroversa, distrugge e crea, ha radici in Bosch, negli scandagli della psiche, dell'eros, di Carmassi, De Chirico, Benedetti, Leddi, Pascali, i grandi surrealisti, i maestri dell'esotico e degli spazi luminosi aperti all'animismo, agli esorcismi mistico sensuali e alle proiezioni mentali. L'approdo è l'universalizzazione della vicenda umana sperimentata da esule e da naufrago: il mare rosso, allegoria del Mar Rosso, attende i relitti delle cose care custodite nell'arca di una nave. Nella realtà Giancarlo Altamura ha operato un"transfert " pittorico del naufragio reale: mare del risucchio, valve che succhiano, sifoni naturali o artificiali che introiettano o espellono, giochi metamorfici allusivi al mare di psiche e delle geometrie inglobanti, fasce, reti recinti, riportano al senso dell'inabissamento e del galleggiamento coscienziale. Chi scorre rapidamente le immagini delle numerosissime opere, che restano ora solo testimoniate in fotografia, si accorge della vena ironica di questo pittore che nella pienezza della gioventù realizzava sintesi sconcertanti di elementi cari alla sua esperienza vitale: il pappagallo, l'anatomia femminile, gli interni, le composizioni di elementi suggestivi, resi nella consapevolezza di una quadratura gravitazionale, sono le coordinate inequivocabili di quella vasta produzione. L'opera attuale, certamente molto più forte e suggestiva (non dimentichiamo che la maturità esperta arricchisce non solo l'analisi dei contenuti, ma anche la suggestione della tecne animata da una sempre più complessa spiritualità), vibra di una ricchezza interiore che si fa poesia malinconica e lacerante, contemplazione di un mondo che nessuno potrebbe mai restituire al sogno. Le magie cromatiche in cui giganteggiano le essenze morfoplastiche della vita, che plana e si consuma, sono belle di quello splendore che legge alla distanza, e a occhi asciutti, la perdita di rotte e prode ambite. C'è un 'opera di Giancarlo Altamura che nell'universalità astratta e immutabile evoca presenze e fatti emozionali come da una reca aperta nella coscienza e nella memoria.

Vi campeggia un'aquila dalla vista acuta, un nobile rapace che capta l'occhio del fruitore e gli narra un mondo lontano, con memorie d'Africa, di forme d'animali riconoscibili sopratutto da un quid caratteriale che il gesto pittorico coglie quasi a strappo connotativo. Terre diverse appaiono dagli scomparti di quinte favolosamente brune o lucenti di albe e tramonti su cieli d'illusioni: tutto il sentimento esprime l'elegia, il rimpianto il perire della bellezza, la caducità, il mistero vissuto come da un presagio testimoniale. È un ottimo esempio di vertigine immaginativa che vive di una feroce solennità sinfonica. Da quella impotente contemplazione si dilatano quindi i fuochi favolosi delle opere, cui da principio abbiamo accennato. Esse sono quindi ritmare da equilibri che sollevano la fisicità a splendori di fatti aggregati e disgregati in un contesto vitale che è realtà superiore, surrealtà, dove i miti perdono le ali e i contrasti esulano dalla umana comprensione, provocano suggestivamente l'immaginazione e propongono all'ermeneuta una pagina ricca di vita.

 



ANTONIO LOUIS VELA

Giancarlo Altamura

“Altamura tenta un'operazione difficilissima: disintegra l'oggettività, particolare per particolare, frammento per frammento, ed annulla ogni ordine prestabilito, creando nuove autonomie, nuovi rapporti, nuovi collegamenti fra le cose ... ”

Ciò che impressiona in questo artista è la perentorietà del suo intervento e la sua potenza espressiva: Altamura prende subito posizione nella grande polemica tra pittura e «antipittura» ed indica chiaramente di possedere molti buoni numeri per poter manifestare un proprio linguaggio e per poter svolgere una sua azione nel contesto della pittura napoletana.
Qual è la posizione del Nostro? Altamura crede più che mai nei valori della pittura, ma ci crede con sentimenti moderni. Gli illusori giuochi dell'intelletto che riducono l'arte ad una specie di «safari» nel corso del quale la «caccia» a nuove realtà assume l'aspetto di operazione mistificatoria (in quanto ogni «verità» diventa in questo modo verosimile e quindi accettabile), vengono respinti da Altamura, il quale tenta un'operazione difficilissima: disintegra l'oggettività, particolare per particolare, frammento per frammento, ed annulla ogni ordine prestabilito, creando nuove autonomie, nuovi rapporti, nuovi collegamenti fra le cose. Altamura, insomma dopo aver scardinato il vecchio codice pittorico tende, attraverso nuove unità di base ottenute dall'annientamento di una realtà preesistente, a stabilire un proprio cifrario, ossia un nuovo tipo di comunicazione tra l'artista e l'uomo della strada.
E' vero che, a prima vista, l'operazione demistificatoria di Altamura può apparire soltanto un episodio onirico, ossia una tendenza a calarsi nelle brume del subcosciente per riportare a galla gli aspetti torbidi o contraddittori, ambigui o traumatizzanti, che si nascondono in fondo al nostro essere e che cerchiamo inconsapevolmente di tenere celati. Devo aggiungere che se Altamura inseguisse ambizioni del genere, non si servirebbe degli strumenti espressivi che egli adopera, per cercare di condurre a termine il suo esperimento pittorico. Sono convinto perciò che questo personalissimo artista non cerca, almeno come obiettivo di fondo, di identificare gli stati alienanti provocati nella umanità moderna dall'avvento della Tecnologia.

Lo dimostra il fatto che i termini morfologici ai quali ricorre Altamura per dare consistenza alla sua operazione, obbediscono a geometrie (forse surreali, anche se il veicolo conduttore fondamentalmente neofigurativo) che trovano nel ritmo visivo-spaziale la loro più importante manifestazione. Insomma, niente nell'operazione di Altamura fa pensare ad una componente nevrotica: nè forme che tendano al traslato, nè colori che, destino raccapriccio o disgusto. E' vero che la rappresentazione onirica non deve essere per forza di tipo alienante, ma allora si andrebbe verso atteggiamenti liricizzanti ingenui ed antistorici ed aumenterebbe il pericolo di una involuzione surrealista.
Altamura si serve delle armi congeniali ai neofigurativi per puntare invero verso una realtà metafigurale che porti l'uomo lontano dagli schemi consueti e che gli indichi traguardi di libertà. A me sembra che tutta l'azione scompositiva di Altamura punti proprio ad affrancare l'umanità dalla angoscia e a renderla più partecipe ala lnecessità di isolare le zone d'ombra per puntare ad una esistenza in cui la comunicazione sia di tipo umanizzante e non di tipo mercificante.
Il bisogno di una realtà modificata, la aspirazione ad una società più armonica il desiderio e la speranza che l'uomo - libero da tutte le forme di schiavitù - conquisti prima di tutto una autonomia morale, mi sembrano i connotati di fondo della pittura di Altamura.

 


EDUARDO ALAMARO

Giancarlo Altamura

“Al bar dell'Epoca c'è sempre appeso al muro almeno un quadro di Giancarlo. Fa parte dell' ambiente, d'epoca, appunto. Attualmente ce ne sono due, di quadri, uno che io ho ribattezzato "Pacchetella" , audace e sensuale; e un altro che propone invece una sorte di sfinge sfigata, tutta nera e cercante, "bruegeliana"... ”


Compagni. Vi ricordate i compagni? No, non quelli "di partito", della sinistra. Quelli son partiti, appunto. E nemmeno quelli "di classe". Siamo democratici ed interclassisti, ormai. E nemmeno, peggio ancora, il compagno di banco. Troppo vecchi, alla nostra età. E non mi riferisco nemmeno al "compagno" seguito dalla strizzatina d'occhio, quello del cuore. Non è il caso, qui, in pubblico. E nemmeno - evidentemente - ai " compagnucci della parrocchietta" anni cinquanta, di Alberto Sordi. Altri tempi. No, per Giancarlo Altamura mi riferisco ai "cattivi compagni" di Pinocchio, quelli del "paesi dei balocchi", del lupan-arte, del bar ozioso, madre e padre dei vizi: nel nostro caso del "Bar dell'Epoca" di Amedeo Pianese a Via Costantinopoli, dove io, Giancarlo ed altri" soci s/fondatori", da anni- quali "profeti minori", tra alterne vicende - perdiamo utilmente alcune ore del nostro prezioso tempo d'arte.
Chi va, chi viene - chi truffa, chi sbuffa -chi inguacchia, chi sguazza - chi legge, chi corregge - chi sindaca, chi indica: tra visioni e pre-visioni, tra pene montate e panne s/montate, al bar dell'Epoca (epoca non ancora identificata) è un via vai di tipi umani al caffè, al cappuccino, alla brioche, posti sotto la nostra assoluta "supervisione" e correzione all'anice, al rum, alla "presa" in genere, (anche per il culo, se si può).
Al bar dell'Epoca c'è sempre appeso al muro almeno un quadro di Giancarlo. Fa parte dell' ambiente, d'epoca, appunto. Attualmente ce ne sono due, di quadri, uno che io ho ribattezzato "Pacchetella" , audace e sensuale; e un altro che propone invece una sorte di sfinge sfigata, tutta nera e cercante, "bruegeliana". Mi son abituato alla loro vista, tanto che se le vendessero mi sentirei monco di qualcosa, tra un caffè e l'altro, tra una maldicenza e l'altra. Ci stanno bene quelle sur-moderne figure delle tele di Giancarlo, perché sono come i clienti del bar, non tanto ben frequentato; ed il nostro mondo (dell'arte) - biunivoca- è come un bar, interclassista, chi va, chi viene, chi non viene più perché è anziano o defunto, chi vorrebbe "venire" ma è fuori mercato; chi si arrangia con la bocca audace perché non ha più adeguato pennello o scalpello, chi ha l'otturatore della sua camera bloccato, e viamaldicendo.
Non è questo il caso di Giancarlo Altamura, pittore "antico" di lunga durata della superrealtà partenopea, (perciò tutt' altro che "locale"); un artista che si presenta da sé - colle sue figure staniate e interrogative, sovra triturate-torturate dalla sua immaginazione fertile - e che certo non ha bisogno di presentazioni e note al margine del quadro.

Infatti questa non è una "presentazione", è solo un leggero "intrattieni", un tocco colorato di parole da "Bar della Critica", ove vado, vedo, e "milito"; un bar ove "miro ed ammiro" i quadri di Giancarlo, da me percepiti come grandi specchi che riflettono, deformando, la clientela dell 'umana-disumanità global-partenopea odierna; "carne" che l'artista sottopone al suo vaglio critico inappellabile, alla sua terribilità, al suo sarcasmo, alla sua sana maldicenza (e mal decenza) pittorica, alla sua maledizione e delinquenzialità d'arte.
Giancarlo, per intenderei, è parte di quella schiatta di napoletani della genia dei mai dimenticato "Totonno 'e Quagliarella", quella più cinica, disperante e pessimista, ma anche la più intensa, intrigante e "terragna". Penso alle parole fondanti di "Totonno", vissuto sempre di espedienti "faticati": "e quanno 'o libbro mio sarrà fernuto, nisciuno diciarria si è bello o brutto ... " (non occorre traduzione, ndr). Come Totonno, anche Giancarlo è sulla stessa direzione, della stessa "scuola di pensiero": se ne fotte del domani, se ne strafatte di sapere se le sue tele sono e saranno giudicate "belle o brutte", quando "'o libbro suo sarrà fernuto"; ciò per il semplice motivo che il libro dell' arte di Giancarlo è sanamente autoreferenziale, monotematico, fissato, anzi avvitato su sé stesso, sur-dimensionato, alieno ed "aliante". 'E volante 'e volante! ! .
Altamura, insomma l'umanità la schifa, punto e basta. Per relazionarsi in qualche modo, per sopravvivere e vivere su questa terra partenopea, la deve "filtrare" sulla tela, tagliarla in pillole, "azzeccarla", ingurgitarla e "defecarla" sul quadro, altrimenti già si sarebbe ucciso. La pittura per Giancarlo è un correttivo per l'accettazione degli altri, che osserva "da sopra" stando in mezzo; l'occhio ed il pennello gli servono quale griglia di vaglia (e vagliatura). Menomale che c'è la pittura per Giancarlo, altrimenti lo avremmo visto per Napoli con il mitra in mano al posto del pennello; o arruolato nella legione straniera dell' arte a mitragliare indifesi cittadini delle metropoli di turno, magari anche del Metrò partenopea, linea 2.
L'arte di Altamura riflette, insomma, l'umanità percepita nello specchio deformante dell' artista; "valutata" dalla sua sensibilità pessimista, senza speranze, talvolta volutamente triviale, eccessiva, ironica, burlona, dalla battuta greve e dissacrante, da codice penale (e penoso) dell'arte, (ed io in questo gli san "compagno").

Quando Altamura "fa" sulla tela quanto ho sopra scritto, è assoluto e si lascia alle spalle più noti ed accorti pittori partenopei autoreferenziali e diaristici, perché il pittore sur- visionario (e sur- vesuviano) c'è; quando riesce ad essere secco e netto nella sua battuta, nella sua gag sulla tela, Altamura è efficace come un colpo di fucile sparato nel buio della notte dell'anima; come una "curtellata" spinta senza pietà nel ventre molle delle attuali convenzioni e buone maniere, - come quei colpi "d'epoca" assestati in un vicolo di Napoli del seicento, ai tempi di Cara(e Bella)vaggio -.
Se Altamura fosse inflessibile con se stesso e con l'umanità "dell'Epoca" che lo circonda; se fase consequenziale e "malavitoso" fino in fondo, tutti i giorni; se scavasse impietosamente dentro il tunnel vivianesco del dissacrante "Quagliarella" che si porta irrimediabildentro, non avrebbe pari. Ma Altamura è buono, perdona, si concede, attenua, diluisce e media la sua terribilità contro l'umanità, fa autogol borghese; entra spesso in un labirinto surreale di maniera che gli fa perdere di vista la sua essenzialità "plebea" e fulminante; vuol piacere e compiacersi, si guarda allo specchio e dice a se stesso; "quanto è lungo e bello, il mio pennello!", e lo rimira, e se lo ri-misura narcisisticamente, ossessivamente. Gli piace allora essere grazioso e prezioso, vuol essere lussurioso e "rnagliaro" nel colore, odierno guappo klimtiano, talvolta finanche dannunziano, (o solo ano): è Bassamura".
lo "tifo" per l'Altamura, quello dell' alta mura del suo fortilizio che, come da cognome, ha messo tra sé e gli altri; mura sulle quali si è poi issato a forza, nell' assoluta estraneità della sua cinica città; e solo io, critico d'arte della sua stessa pasta - e posta -, (del "Vasto/Vicaria", ndr) gli posso stare al fianco, per pisciare insieme - da questa postazione (ed im/postazione) - sugli abitanti di tutti i bar di questa e d'altra Epoca, di questo e dell' altro Mondo dell' Arte. Così sia!

 



LUIGI CASTELLANO (LUCA)

Giancarlo Altamura

“... non è difficile affermare e dimostrare come non ci siano moti o spazi incolmabili nel lavoro di Altamura, pur in un pensiero cosi’ complesso e composito come il suo tra individuo e cultura... ”


É certamente uno solo il privilegio accordato da Altamura allo sviluppo dei suoi "racconti" e che corre lungo tutta - la trattazione -: tutto si svolge come se una sorta di corrente di induzione legasse - comunque - le immagini tra di loro; come se fosse al di sopra delle forze dello spirito umano rifiutare un "filo", quando due immagini si succedono. Forse l'artista riserva particolare privilegio alla descrizione sintagmatica, per contiguita’, ma cio’ non significa ridurre le immagini prodotte ad un solo asse semeiotico poiché i rapporti In - praesentia - sono di una ricchezza che rende ad un tempo superflua e difficile la stretta organizzazione dei rapporti in - absentia -. É perchè le opere sono facili a comprendere che sono difficili a spiegare. Quello che più conta, al di fuori dell'effettiva comprensione del pensiero dell'artista, è quindi il non vedere nel suo linguaggio operativo il mancato svincolo da quella - impressione di realtà - che sembrerebbe costituisca il limite alla intera progettazione data, quanto a comprendere l'importanza della evoluzione del - procedimento - impiegato, consistente in uno sviluppo autonomo delle sue leggi semantiche, dal suo liberarsi dalla motivazione generica di carattere naturalistico.
Purtroppo la labilità del termine "cultura", utile per la lettura di queste opere, è oggi diventata cosi’ banale da rendere opportuna ed urgente l'adozione di un altro termine per la sua eccezione tecnica e tuttavia lo stesso termine non permette di "trasporre" i temi in modo persuasivo per i lettori; dal livello dell' analisi filosofica a quello antropologico-culturale. Ma non è difficile affermare e dimostrare come non ci siano moti o spazi incolmabili nel lavoro di Altamura, pur in un pensiero cosi’ complesso e composito come il suo tra individuo e cultura. In altri termini diremo poi che queste - immagini - pur rivendicando una colpa collettiva riescono a dare una spiegazione storico/concreta di particolari condizioni attuali della - personalità - e della sua acquiscenza ovvia a chi detiene il potere. Cosi’ pur muovendosi sul filo sottilissimo dell'accettazione di un proprio "non essere" Altamura offre al riguardante tutti quei - sostitutivi di identità - che scorrono sulla testa degli uomini d'oggi che sono più potenti dei loro, perche’ per esistere prima e fuori di loro.

La mostra ci offre quindi diversi motivi per "ripensare". Sono motivi dettati dalle analogie o addirittura dalle coincidenze tra i problemi di vita e le nostre scelte.
Queste analogie risultano a volte evidenti ed a volte no, e tuttavia di fronte a situazioni-limite ci offrono di rilevare sempre la nostra responsabilità della vita per quanto abbiamo fatto e facciamo esperienza di essa.

 



MAX VAJRO

Giancarlo Altamura

“Quello che colpisce, aldilà della vera e propria "bravura" dell' artefice e oltre il fantastico stralunamento dei corpi, che egli dipinge, è l'assenza di malignità, è una grande pietà che le tele ci testimoniano e di cui esse per prime soffrono ... ”


Giancarlo Altamura mi chiede una prefazione con molto garbo e con una insistenza che mi lusinga non poco, anche se imporrebbe alla mia onestà di non accontentarlo, poiché credo che egli si aspetti da me una introspecritica in un linguaggio di altro gergo critico, in una forma cioè che corrisponda alla forza, all' originalità, allo spessore della sua espressione artistica. Con la quale dovrebbe cimentarsi un critico che fosse davvero tale e non un uomo di lettere con l'occhio avvezzo all'Arte sì, e vibratile per quanto l'Arte comunica con la sua magica immediatezza, ma non con la coscienza razionale d'un indagatore asettico che non si lascia sopraffare dall'emozione. Però devo dire, con il massimo rispetto verso i critici cosi detti di professione, che sono lieto mi sia stato per un momento aperto uno steccato, da farmi vagare allo stato brado tra queste immagini che offrono un nuovo orizzonte allo sguardo come la meravigliosa cupola Fortuny di un grande teatro. Faccio quindi forza sull’ ammirazione estatica che provocano i suoi intrecci fantastici di oggetti, frutti, animali-uomini e animali veri, i suoi paesaggi metafisici, gli stupendi uccelli antropomorfi, di colore arancione sull'arancione; il tronco umano che rompe il sacco come un uccello da nido il corpo femminile dalle zampe caprine e dalle dita adunche, e le fantasie di uteri divelti e anatomie degne di un Bosch redivivo; gli accostamenti assurdi, ali di uccelli e arti umane, conchiglie e corpi tagliati e ricomposti alla rinfusa, e arditissimi connubi di bleu con l'ocra; le figure paradossali nelle quali finiamo con lo specchiarci; alieni nei quali ci riconosciamo ma senza orrore, perché il messaggio di Altamura è senza orrore, esso si carica di pietà nel proiettare la nostra radiografia contro un fondale di veementi di colori che alla fine riflettono noi stessi.
Quello che colpisce, aldilà della vera e propria "bravura" dell' artefice e oltre il fantastico stralunamento dei corpi, che egli dipinge, è l'assenza di malignità, è una grande pietà che le tele ci testimoniano e di cui esse per prime soffrono, senza il compiacimento che queste tematiche di distorsione spesso svelano un "animus", più o meno conscio, dell'autore. L'Arte non deve prefiggersi di stupire o atterrire o vestire il cappuccio del torturatore o del vendicatore: il fine del!' Arte, non è più "la meraviglia", ma piuttosto essa deve e può usare ogni mezzo espressivo, ogni fantasia, ogni tecnica e ogni espediente purché servano a rompere i confini del!' inespresso e le carceri dell' anima.
Rinchiudo le fotografie che Altamura mi ha inviato, resto pensoso a lungo. Mi pare che l'artista abbia segnato un momento importante di me, dando sbocco a tanto commosso stupore. Mi pare che Giancarlo Altamura possa essere pago di sè e di quello che fa.

 



HANNO SCRITTO: Ciro Ruju, Antonio Louis Vela, Salvatore Di Bartolomeo, Elio Morelli, Rosario Boluzi, Gino Grassi, Woithec Gabinsky, Mimmo Grasso, Mario Persico, Angelo Calabrese, Luigi Castellano, Rosario Boenzi, Rosario Pinto, Max Vairo, Tiziana Tricarico, Eduardo Alamaro, Donatella Gallone, Maria Roccasalva