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Mer, Nov

ANTOLOGIA DELLA CRITICA:

L’artista dell’intransigenza che rifiuta l’ovvio
di MARIO FRANCO


MARIO Persico vive al Vomero, ad un terzo piano senza ascensore che definisce «a prova d’infarto» sulle scale tra via Luca Giordano e via Aniello Falcone. Se con un solo aggettivo volessimo definire e qualificare la sua avventura artistica e umana, dovremmo utilizzare un unico vocabolo: intransigente. E non perché Mario Persico sia ossequiente a norme o principi stabiliti, ma per il suo impegno rigoroso, per essere un artista lucido e raziocinante che ha sempre rifiutato la mistica dell’estasi e dell’estro, della folgorazione, della gestualità ispirata, per concentrarsi su ciò che i romantici chiamavano “Erlebnis”, l’esperienza interiore non disgiunta dalla visione storica del mondo. Questa intelligenza insieme partecipe e distante, introversa ed estroversa, ha saldato le sue antinomie, nel tempo, con un procedimento logicomentale che ha consentito all’artista di integrare il ragionamento con una visione magica e ambigua della realtà. Ma cos’è la magia per Persico, gran maestro dell’Istituto Patafisico Partenopeo, editore della rivista Patapart? «La magia rappresenta il mio legame con Napoli — risponde — una città che è come una scatola cinese: cominci a conoscerla e ne scopri un’altra e così via; e ciascuna ha una propria cultura e una propria economia. Magia, miseria e potenziale creativo — continua Persico — fanno parte della stessa radice e rendono possibile la sopravvivenza anche nei momenti più difficili. La magia è inoltre un dato concreto della mia infanzia. Vivevo con i nonni, i miei genitori erano separati, e c’era una miseria di cui oggi non si ha più memoria. Quando mia madre veniva a portarci da mangiare, oppure a portarci i fiammiferi per avere la luce, per me era una maga, un’apparizione dispensatrice di gioie». Poi la scoperta dell’arte, il desiderio di mettere a frutto un’innata capacità di disegnare, colorare, assemblare. In Accademia il giovane Persico fu ben presto tra i protagonisti del gruppo nucleare, che aveva il suo maggior rappresentante nel milanese Enrico Baj. Il nucleare praticava un impasto cromatico e materico non dissimile da quello della pittura informale, ma era sensibile ai temi dell’era atomica, fonte di paura (la bomba) e di speranza (un’energia illimitata). Il contatto con i movimenti nazionali d’arte contemporanea, nell’assenza cittadina di una rete di gallerie e di mercato, avveniva proprio in Accademia, luogo altrove ligio alla tradizione, ma, a Napoli, sede di movimenti e istanze che proprio dalla tradizione, intesa come retaggio di un manierato pittoricismo ottocentesco, volevano fuggire. La frequentazione con Colucci e Biasi fornirono a Persico un bagaglio tecnico (ibridazioni di tempere e vernici, che facevano esplodere in craquelure artificiali smalti industriali e colle viniliche) e ideologico che metteva in crisi il dipinto come oggetto tesaurizzabile, il manufatto artistico come significante assoluto. I dipinti di Mario si riempivano di oggetti, di cianfrusaglie da rigattiere. «Era un dato della mia biografia.Per poter studiare avevo fatto il rigattiere con i miei zii; scartavo stracci di cotone per tenere quello di lana, un vetrino che si incastrasse in un orecchino… Questo lavoro mi seduceva, raccoglievo frammenti che erano brandelli di vissuto e di esperienze». Persico cominciò a frequentare Guido Biasi e la sua casa con una ricca e nutrita libreria, affascinato dal virtuosismo eclettico dell’amico che non si esprimeva solo in continue invenzioni pittoriche, ma comprendeva qualità di scrittore, di teorico e si manifestava in infinite curiosità per la letteratura, le teorie esoteriche, la lezione delle avanguardie storiche. Insieme espongono a Monaco, a San Marino, a Napoli, a Firenze. Poi Persico ha la sua prima “personale” a Stoccarda nel 1959 presso la Galleria Senatore. Quindi il rapporto con Arturo Schwarz. «Sì, Schwarz rese possibile il mio desiderio di vivere con la pittura. — racconta Persico — Avevo un contratto di quarantamila lire per sei quadri e un insegnamento in una scuola parificata dalla quale ricevevo sedicimila lire al mese. Era il 1960. Schwarz era irascibile quanto me. Comunque fu un rapporto molto bello. Quando andavo a Milano mi ospitava, mi portava a teatro… io ero un po’ intimidito da quell’atmosfera». Sono gli anni in cui Man Ray viene a Milano grazie a Giorgio Marconi, gallerista di Baj e Arturo Schwarz convince Marcel Duchamp ad una riproduzione seriale dei suoi “ready made”. Persico e Biasi si sentono partecipi di un movimento complessivo, europeo, che implica grande politicizzazione e grande voglia d’agire. A Milano Persico conosce e frequenta artisti come Manzoni, Baj, Breton, Duchamp. «Voglio raccontarti un episodio — dice — Ero con Baj alla stazione di Milano per accompagnare Marcel Duchamp in partenza per Parigi. Ad un certo punto Duchamp ridendo ci disse: “Ma avete visto quante Fountain ci sono nei musei di tutto il mondo?”. Il che, secondo me, non significa solo il fatto che il suo famoso orinatoio era stato riprodotto e moltiplicato, ma era anche una critica al mercato, che addomestica ogni audacia ed infrazione, rimettendola nella tranquillizante categoria dell’eccentricità e dello scandalo. Così tutto diventa mercificabile». Gli chiedo del gruppo ‘58 e delle riviste di cui fu redattore, “Documento Sud” e “Linea Sud”. «Il gruppo ‘58 nacque per far fronte comune contro la volgarità piedigrottesca della Napoli laurina. Luigi Castellano ne fu il motore propulsore, il gruppo era formato da pittori con interessi diversi come Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Del Pezzo, da me e da Biasi… Poi il ruolo del gruppo si ampliò anche per i rapporti che subito intercorsero tra noi e l’esordiente poeta Sanguineti o Emilio Villa. “Documento Sud” fu la rivista che polarizzò sul gruppo e sulla città l’interesse internazionale. Avevamo corrispondenti in America e in Giappone, oltre che in tutta Europa». E dopo toccò a “Linea Sud”? «Sì, con Stelio Maria Martini, e poi con Luciano Caruso. I contributi di Martini furono tanto notevoli che io deposi le armi. Sì, certo, organizzavo… era una rivista che usciva sui debiti, a fare i debiti era Tina, mia moglie…». Tina Persico, compagna di Mario fin da quando aveva quattordici anni, è stata ed è una di quelle fidate e discrete presenze indispensabili alla vita sociale e alla sopravvivenza psicologica degli artisti, soprattutto se di carattere severo e solitario come Mario. È lei che tiene i contatti con gli amici, i critici, i poeti; è lei che organizza improvvisate cene che sono divenute leggendarie. Da poco ha raccolto le sue ricette, originali e tradizionali insieme, in un agile volumetto, “La tavolozza imbandita”, al quale hanno partecipato artisti e poeti come Lea Vergine e Edoardo Sanguineti, Stelio Maria Martini e Lucio Del Pezzo, Eleonora Puntillo, Antonio Casagrande, Mimmo Paladino e molti altri. Persico è noto per le sue opere-strutture aperte, che chiamò «praticabili», poiché il fruitore poteva interagire con esse, ampliandole o modificandole. Ha collaborato a lungo con Edoardo Sanguineti fin da quando misero in scena l’opera “Laborintus II” su musiche di Luciano Berio alla Scala, nel 1973. Più recentemente ha firmato con Sanguineti, Dorfles e Pirella il “Manifesto dell’Antilibro”, nel 2003 ha illustrato un “Omaggio a Goethe” e nel 2004, un “Omaggio a Shakespeare, nove sonetti”, tradotti da Sanguineti. Persico non si nasconde les liaisons dangereuses che legano l’arte ai massmedia, il museo al mercato e prova un vago rammarico per la dimenticanza nella quale la città ha spinto gli artisti napoletani. Nella prefazione all’edizione della “Lunga Lettera da Parigi” di Guido Biasi ha scritto: «Il tempo scorre sviluppando e imponendo le sue forme secondo una logica determinata da poteri, eventi, necessità con cui non sempre siamo in sintonia. Ed eccoci automaticamente, da un giorno all’altro, trasferiti nell’ombra, nel più assoluto silenzio, considerati, dall’ingranaggio del tempo, improduttivi, anacronistici e, forse, fastidiosi». Eppure, non c’è nessun sentimento di sconfitta. Mentre parliamo, egli lavora ad un grande “NO”, un’opera che riprende e riattualizza «la strategia del rifiuto», muovendola con quelle antenne tentacolari che Mario ha utilizzato ed utilizza per indicare una realtà incrinata, visibile solo come insieme di parti disarmoniche e irrelate. Il “NO” diviene così lo specchio che mostra il rifiuto dell’ovvio e, nello stesso tempo, indica la via (le vie) per una possibile riflessione critica.
(07 ottobre 2007)



Mario Persico
Napoli, Castel dell'Ovo
18 Ottobre 2007 - 14 Novembre 2007


Dedicare oggi una mostra antologica a Mario Persico significa non solo rendere omaggio ad uno dei più interessanti pittori napoletani, ma anche riflettere sulla storia artistica di Napoli. L'esposizione, curata da Mario Franco, è promossa dalla Regione Campania e dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli e organizzata da CIVITA. Negli anni Cinquanta Persico, con Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Guido Biasi, fece parte del gruppo di artisti che aderì alla corrente pittorica detta nucleare, che aveva il suo maggior rappresentante nel milanese Enrico Baj. Dal 1959 al 1963 è stato il redattore della rivista "Documento Sud", un foglio di tendenza che stabilì tra la città di Napoli ed il mondo dell'arte una fitta serie di rapporti internazionali (con il gruppo Phases dell'artista e critico Edouard Jaguer, animatore del Surrealismo rivoluzionario, con lo SPUR di Monaco dello scultore Lothar Fischer che confluirà nell'Internationale Situationniste e il BOA di Buenos Aires). Dal 1963 Persico cominciò un percorso autonomo, una sorta di ritorno alla figurazione che tesaurizzava le tecniche precedenti verso opere-strutture aperte, che chiamò "praticabili", poiché il fruitore poteva interagire con esse, ampliandole o modificandole. Il '63 segna anche la ripresa dell'attività editoriale con la rivista "Linea Sud". Su questa rivista Persico pubblica anche alcune poesie che saranno raccolte e ristampate dall'editore Guanda. Nel 1966 illustra la traduzione italiana di Luciano Caruso dell'opera patafisica "Ubu Cocu" di Alfred Jarry. In Persico l'interesse per le teorie patafisiche (una sorta di ironico ritorno a quanto di esoterico rimane nel pensiero occidentale, secondo l'insegnamento di Alfred Jarry, demone dell'assurdo e della derisione) è una costante della sua opera. Fin dagli anni cinquanta Mario Persico frequenta e collabora con Edoardo Sanguineti. Tra i momenti più interessanti di questa collaborazione si possono annoverare le scenografie e i costumi per l'opera Laborintus II di Sanguineti su musiche di Luciano Berio, andata in scena alla Scala nel 1973. Più recentemente ha firmato con Sanguineti, Dorfles e Pirella il "Manifesto dell'Antilibro" ed ha realizzato nel 2001, alla Biennale di Venezia, due "Bandiere della Pace" impagina nei modi della "poesia visiva" un testo di Sanguineti. Ancora nel 2003 ha illustrato un "Omaggio a Goethe" e nel 2004, un "Omaggio a Shakespeare, nove sonetti", con traduzioni di Sanguineti. Dal 2001 è Rettore Magnifico dell'Istituto patafisico partenopeo e stampa "Patapart" , una delle più belle, colorate - e difficili da sfogliare - riviste d'arte contemporanea. La mostra Accanto alla tradizionale esposizione di opere - circa un centinaio di opere dipinte più disegni e strutture mobili tridimensionali - la mostra intende offrire al visitatore una serie di supporti e di documenti in grado di disegnare il contesto storico-esistenziale delle opere stesse e dell' artista che le ha concepite. Apposite bacheche esporranno, quindi, documenti testimoniali, riviste, manifesti collettivi di gruppi e di movimenti che, staccandosi dalla vieta tradizione oleografico-paesaggistica ottocentesca, si sono avvicinati alle problematiche dell'arte contemporanea con lo scopo di ritrovare nella città di Napoli la sua non sopita natura aperta e cosmopolita. Allo stesso modo alcuni pannelli esplicativi forniranno notizie su tutte quelle esperienze che hanno contribuito all'evolversi dell'arte a Napoli, comprendendo le connessioni tra il lavoro creativo e l'ambiente circostante, ovvero quella rete di relazioni sociali e culturali che qualificano il cosiddetto tessuto civile della città.

 



Variazioni sul tema

PAESAGGIO DELL’OCCHIO
Da una mostra antologica di Arti Visive di Mario Persico
Castel dell’Ovo - Napoli 2007

Castel dell’Ovo - Napoli 2007
Devo aver digitato il tasto matto ed ecco, istantanea, in bell’effetto flashbang, l’immancabile scossa tellurica (con qualche approssimazione) nella scatola cranica. Una carezza! E’ questo che vuoi? Affilare accordi crudissimi su questa bocca spalancata di vulcano e senza reti di protezione? Mi vuoi apprendista di quali strategie speziate di cromìe sonore e striature d’ascia nel blu? Questo Paesaggio dell’occhio è polvere da sparo e inchiostri stregati, grida d’uccelli e bestie di cui s’è perso il nome. Che in un niente si espande a tuttocampo e come in ologramma scatta in avanti – basilisco enorme – nell’occhio. Occhio enorme, che continua a dilatarsi, che entra ed esce dal quadro. Ne focalizzo l’insieme ondeggiando sui contorni, poi penetro nel nucleo, no, meglio: ne vengo aspirata, come dentro una catena primordiale che mena dritta all’ignoto (non senza aver lasciato lembi di pelle e squame tutt’intorno).
Dove sei, Perturbatore dei Segni, da quale miniera di fosforo e zolfo ci spedisci la tua risata? Sono pronta, sì pronta, a mutare pelle, saltellando recinti spinati con queste ali che si spezzano mentre rispuntano; anzi da qui, se ti avvicini, ti narro una storia, oppure sei tu, M.* che me la detti direttamente nell’occhio: una strana fiaba crudele scheggiata ai bordi, di colore plumbeo – sanguigno, pessappoco, ma prima… devo strapparmi da sola quest’uncino che mi hai ficcato in gola. Lo userò come amo senz’esca su di te! (beh, le passioni, ti dirò, sono un sapere condiviso…)

Ecco, ora mi arrampico, mi vedo omuncolo di gesso o di lattice nel grande tuorlo perlaceo (o ne discendo?) figurina da niente caduta nella tela di ragno, oppure, ma certo: larva gelatinosa, escreta dall’occhio – cosmo, da cui verrà fuori, forse, (in quale tempo?) l’individuo che mi somiglia. Il filo, mi sa, il filo a cui mi aggrappo, è stata una geniale invenzione, brevettata tra un gradino evolutivo e
l’altro, decisa a confiscare un caos galleggiante nel cobalto acceso attorno all’ostrica gigante. Ne faccio un’altalena, se mi va, e posso pure allungarlo in discesa, questo filo memore o dismemore, non so. In realtà mi ci aggroviglio, con un viacard scaduto in ogni tasca assieme ad altri consimili nella specie e non, scendendo sempre più a fondo in questo occhio – caverna di pura emozione, e dentro esplosa come un ordigno. Ma poi se guardi, occhio non è: è uno spasmo labirintico composto da miriadi di forme in mutazione impigliate, una dopo l’altra, tra le branchie e pinne del pesce – occhio, e sbattute giù a colpi di coda per finire come schizzi di acido, proprio qui, sulle pareti. Una folla! Una folla anfibia dai sensi bucati che una danza infernale disarticola all’infinito, il cui solo riscatto si misura in forza – colore e si pesa in morsure negli occhi.

E noi lì, danzanti e sfigati, tra i gas saturi che i nostri corpi producono, ignari del limite, teatranti irriducibili di questo teatro imaginario, di questa scapola di Sud sconsacrato, ma con una manciata di grani fatati nel ventre. (Che sia qualche grano soltanto, non ancora secco, tutto ciò che decide?)
Il resto, dirai (senza dirmelo) è disconnessione in corso sintonizzato a tempo e in fuga sullo zero… ( siamo o non siamo, per privilegio degli dei, invitati speciali alla Grande Festa di Scatenamento del Fuoco e dell’Acqua che si terrà, a due centimetri dalla nostra testa, in data da stabilirsi?)
Ma tu, a chi darai in consegna la mappa labirintica dove scrivi e cancelli le formule di tutte le dissonanti combinazioni e ontaminazioni? Posso raggiungerti con lo sguardo nella fucina delle Invenzioni mentre trasformi di sostanza idea e materia, mentre non smetti di pestare pigmenti e detriti di storia nel mortaio sfondato, e sillabari marciti e cifre algebriche a parodia d’una metafora della fine che è già tutta vissuta in fondo all’occhio; ed ora che l’hai ingoiata puoi risputarla: la fine è sempre un passo più in là. Solo un passo, un tratto breve che può essere tutto. Tutto ciò che ce ne distanzia, intanto. Ma flessibile, che prende ad animarsi in variazioni complesse, in accordi pulsati sulla rétina, un paesaggio… Un paesaggio dell’occhio. Questo paesaggio, sbarrato a qualunque ovvietà di racconto, può essere solo quello che è: SCANDALO DELLA VISIONE NUDA! Essenza orgiastica e intelligenza a blocchi. Visione!
Basta saperlo, mi dico: essa non ti verrà annunciata, ti è già addosso! E adesso sai che in qualche modo, sì, in qualche modo, ne fai parte: ne sei – ne siamo – sequestrati dentro: siamo, noialtri, materia guardata che vede, per rifrazione ottica, se stessa. E quello che vediamo di noi è molto più di quanto sappiamo. Mentre l’occhio – pesce ammicca, sbattendo la coda, spostandosi da una parete all’altra col suo carico d’immagini già vissute, già dipinte, e sempre di là da venire. Provvisorie, magari, ma già fissate (nella mente dell’occhio) e cresciute a dismisura in una spirale apparentemente senza sbocchi, ma che ha i suoi ingressi e le sue misteriose uscite. Il traffico talvolta si congestiona ma poi da sé si sgarbuglia; nodo o filo che sia, filo perso, filo ritrovato e talvolta, appena esile bava di ragno.
Che sia, insomma, tentare di sciogliere, sempre daccapo, lo stesso cappio? Per poter assumere da svegli, così appesi, la posizione reale del sogno; ma poi sospetto che sia l’inverso: per riassumere in ogni qui, in ogni adesso, quella che ci fa veri sognandoci dentro. Dimmi di no!
Marisa Papa Ruggiero

 


Il grande successo a Castel dell'Ovo
della Mostra Antologica di
Mario Persico
“NO”
di Maria Carla Tartarone

Visitata a Capodimonte la sala degli Artisti Napoletani, in cui si conserva anche un’opera di Mario Persico, scelta fra gli oggetti ammiccanti, desidero ricordare la recente mostra napoletana a lui dedicata.
Con grande successo, infatti, dal 18 ottobre al 14 novembre 2007 sono stati raccolti in mostra centotrenta pezzi della cospicua produzione di Mario Persico nelle sale del Castel dell'Ovo, ad indicare i momenti più significativi della ricerca artistica del Maestro nella formazione culturale dell'ambiente artistico napoletano, italiano ed europeo. La rassegna era stata promossa dalla Regione Campania e dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, organizzata da Civita, a cura di Mario Franco.
Persico nasce a Napoli nel 1930 e già dal '49 partecipa a mostre collettive; ha un maestro stimolante in Emilio Notte, dalle matrici dada e surrealiste, alla Accademia Napoletana. Nei primi anni Cinquanta, Persico è tra i firmatari, con Mario Colucci, Guido Biasi e Lucio del Pezzo, del Manifesto dell'Arte Nucleare di Enrico Bay, movimento che, nato dall'Informale, si contrappone al Neorealismo. I suoi adepti concepiscono l'avanguardia in chiave marxista ed il Nostro vi aderisce con convinzione.
A Castel dell'Ovo, in ordine cronologico nelle prime sale, tra le tante opere possiamo ammirare “Gioia verde” del '55, “Paesaggio dell'occhio” del '56, “Paesaggio per la mia ragazza”, olio e tecniche miste del '57, ”Rinoceronte col ricordo dell'uomo” del '59, “Dialogo sotto l'astro” del '60, “Personaggio con un cadavere nella testa” anche del '60, in cui nonostante le motivazioni differenti, pervade una gioia coloristica che entusiasma.
Alla fine degli anni Cinquanta Persico partecipa alla formazione del “Gruppo 58” insieme a Guido Biasi, Lucio del Pezzo, Sergio Fergola e Luigi Castellano (Luca), cui segue l'uscita di Documento Sud. Le discussioni su l' Arte lo portano a riflettere sul mondo degli oggetti che già Proust, Kafka, Heidegger avevano considerati animati, partecipi della vita dell'uomo, rivelatori dei suoi pensieri inquietanti. Persico considera dunque la possibilità che gli oggetti manifestino la loro aggressività nascosta, castrata, nel metamorfismo. Comincia perciò a realizzare gli “oggetti ammiccanti” (una di queste opere è a Capodimonte) e nel '65 le prime “opere praticabili“ dal fruitore: opere tridimensionali allungabili, in legno a colori vivaci e altri materiali, spesso dal carattere ludico e infantile (scacchiere, roulette, giochi dell'oca, percorsi ad ostacoli) offrendo soluzioni fantastiche ai problemi dell'arte perseguendo gli ideali della Patafisica, scienza delle soluzioni immaginarie, appunto, secondo l'insegnamento di Alfred Jarry.


Nel 1968 “la componente erotica e quella del gioco, occultanti ragioni e intenti più severi”, inducono Mario Persico a progettare per la galleria “Senatore” a Stuttgart “Segnali Anamorfici”. Appartengono agli stessi stimoli le “Gru Erotogaie” di varia grandezza realizzate nello stesso '68, anch'esse in mostra a Napoli. Nella stessa Stuttgart, nel 1970, presenta con successo la sua prima Mostra Antologica.
Contemporaneamente diventano urgenti le riflessioni di carattere politico-sociale, conseguenti le vicende mondiali degli anni delle stragi in Tailandia, in Indonesia, nella Repubblica Dominicana. Persico riconosce l'impotenza di essere, con il suo lavoro, parte attiva nel processo politico di democratizzazione, allora teorizzato dalla sinistra estrema, ed affida una delega belligerante agli oggetti che va realizzando, “ciò che non può essere detto deve tuttavia farsi sentire” afferma e costruisce perciò prima le “Sedie dell'isteria”, poi le “Sedie della tortura” (1971, 1974, 1976) immedesimandosi nella tragedia delle popolazioni straziate, auspicando che l'oggetto “senza valore documentativo” nella metamorfosi diventi “altro”, scuota le coscienze.
In mostra sono “La seconda sedia dell'Isteria” del '72 e la “Sedia della tortura” del '74, già apparsa nel Palazzo Reale di Napoli nella mostra Napoliscultura del dicembre-gennaio 1988-89.
La rassegna è documentata da pubblicazioni, fotografie, ed anche da un Video, che percorrono tutta la costruzione della ricerca di Persico fino alla realizzazione dell'ultima opera “No”.
Tornando all'ordine cronologico delle opere, ricordiamo che nel 1973 l'Artista realizza due scenografie per il “Labirintus II” di Luciano Berio e per il “Combattimento di Tancredi e Clorinda” di Monteverdi. Poi si dedica alle “Tavole della memoria” negli anni Settanta fino all'Ottanta. Ma contemporaneamente partecipa anche a ricerche linguistiche di ambito concettuale collaborando al “Manifesto dell'Antilibro” di cui furono firmatari nel 1997 Antonello Cassan (fondatore di Liberodiscrivere.it), Sanguineti e Dorfles. Nel 2001 viene nominato Rettore dell'Istituto Patafisico Partenopeo (esistono a Parigi, a Londra e a Milano Istituti Patafisici che si ispirano all'opera di Jarry, pubblicata postuma nel 1911, “Gesta e opinioni del dottor Faustroll, Patafisico”, e raccolgono letterati, artisti e studiosi di fama). Nel 2002 realizza il primo numero della rivista “Il Patapart” di cui sono in mostra otto tavole.
Del 1980 è esposta l'opera “Memoria e evento indecifrabile” (tecnica mista su tela del 1980); di poco più tardi sono “I funerali di Ornans” di Courbet (collage su tela, dall'83 al 95), “Courbet ed altre cose” (olio, tempera e collage su tela del 1983); del 1988 è “Breve storia della fine tragica di un amatore di volatili”; “La vedova e i suoi pretendenti campagnoli” (tecnica mista su legno del 1991); e ancora “Noi percorriamo l'ombra delle cose” (del 1996, tecnica mista su legno).
Infine l'opera nuova che dà il titolo alla Mostra “No” (del 2007, opera estensibile su legno, collage con giornali e pittura acrilica). Persico qui, attraverso un nuovo “oggetto praticabile”, riprende “la strategia del rifiuto”, di nuovo un oggetto metaforico a significare il dissenso da un'arte prodotto economico delirante e l'invito a ritrovare la via del rigore e della riflessione critica.

ANTOLOGIA DELLA CRITICA:

Il 16 Luglio 2006 si è spento Crescenzo del Vecchio. Pubblichiamo con piacere il ricordo che il critico Battarra ci ha inviato per ricordarlo.

Enzo Battarra ricorda Crescenzo Del Vecchio


Crescenzo Del Vecchio, l'artista, il maestro, è scomparso. Ha lottato contro la malattia, con il suo coraggio di sempre, con tutta la sua passione per la vita, con il suo grande amore per ciò che lo circondava e per il mondo intero. Ma non ce l'ha fatta!
Vorremmo ancora dirgli che gli vogliamo un bene enorme, che per noi è stato ed è un riferimento insostituibile. Questo a Caserta, da sempre la sua città adottiva, a Baselice, paese suo natio, a Maddaloni, luogo del suo impegno civico. Ma sicuramente in queste ore lo stanno piangendo i suoi ex allievi delle Accademie di Napoli, di Bari, di Brera a Milano. E lo piange tutto il mondo dell'arte. È stato per me e per tanti altri, più che suoi allievi suoi figli adottivi, un gigante, un Gulliver, tanto per citare uno dei temi artistici a lui più cari. Ha letteralmente allevato generazioni di operatori culturali in tutti i territori in cui ha operato. Molti sono oggi artisti affermati, anzi affermatissimi, altri, come me, fanno i critici d'arte, altri comunque sono rimasti legati alla vita culturale del Paese. Ha insegnato non l'arte, ma l'amore per l'arte, che è cosa molto più sublime. Artista dalla tecnica pittorica eccezionale, per non dire mostruosa, mi ha trasmesso la capacità di valutare la capacità creativa, la genialità, la comunicatività.
Mi ha insegnato ad andare oltre la tecnica, pur senza mai dimenticarla. Mi ha fatto appassionare all'arte trent'anni fa, quando in una bottega culturale di via Colombo a Caserta, Lineacontinua, condotta dal compianto Armando Napoletano, mi coinvolse in una performance, "La muricciolaia". Entrai nelle foto ed entrai nel mondo dell'arte, iniziando subito dopo a scrivere i miei primi testi. E, mi piace ricordarlo, fu mio padre a presentarmi Armando e poi Crescenzo. Ora non c'è più. Sarebbe fin troppo facile dire che restano le opere, ma, per quanto splendide, non riescono a colmare il vuoto della sua mancanza. Perché la genialità artistica di Crescenzo inondava i suoi lavori, ma si riversava su tutti noi, era in lui, quasi come una materia palpabile. Mentre scrivo mi emoziono, ma voglio dire che forse le sue opere più belle sono le tante persone che lui ha coinvolto, ha fatto innamorare dell'arte, ha cresciuto nel segno di un impegno totalizzante nel campo culturale.
Anch'io sono una sua opera, o se preferite sono opera sua. Da lui ho assorbito anche il senso delle istituzioni, l'impegno civico. Crescenzo è stato assessore nella città di Maddaloni e ha fatto sempre politica attiva. Perché la cultura ha bisogno di essere proposta e sostenuta nelle sedi istituzionali. Avevamo la stessa tessera di partito ma avevamo soprattutto lo stesso obiettivo politico, nel senso pieno del termine.
Caserta dovrà ricordare Crescenzo Del Vecchio Berlingieri, l'artista che amava aggiungere al suo cognome anche quello della madre. La città dovrà ricordarlo molto più di quanto abbia mai fatto. La sua mostra del marzo 2001, che inaugurava la sala espositiva del Centro Sant'Agostino, è stata un giusto tributo, ma molto tardivo, al suo genio.

A Benevento, nella Rocca dei Rettori, la sua ultima personale.
Era l'11 marzo scorso, la malattia gli stava minando il fisico ma non gli aveva tolto certo l'entusiasmo della creazione, e volle che a presentarlo in pubblico fossi io. In quell'occasione, pur di raggiungerlo, superai con l'auto una bufera di neve. Oggi più che mai sono felice di averlo fatto! Un pensiero alla sua famiglia, a Teresa, la moglie che ha assolto in modo esemplare il difficile compito di assecondare il genio che era in lui, e ai figli, tutti e tre bravi nel portare dentro di loro il suo insegnamento di vita, Benedetta, Maria Adele e Gigiotto, quest'ultimo mio vero e proprio fratello minore.

Le opere in questa pagina sono tratte dalla mostra “Familiari“ di Crescenzo Del Vecchio Berlingieri alla Galleria delle Arti Contemporanee di Caserta, nel marzo 2001.

Come scrive il dott. Gianmaria Piscitelli nella presentazione della mostra: “Questa mostra è la scelta di campo di una istituzione, quale la Galleria delle Arti Contemporanee…
Abbiamo inteso da un lato attestare il ruolo dell’arte casertana nel panorama mondiale delle avanguardie e, dall’altro, abbiamo voluto fare una scelta internazionale, perché Del Vecchio è artista di spessore e di storia, considerato anche al di fuori dei confini della nostra nazione.”
“Noi spettatori corriamo l’avventura di fare parte di un happening, improvvisato nella misura in cui è casuale la nostra partecipazione ed in cui è programmata l’azione delle componenti dell’opera, del quale prendiamo coscienza soltanto a processo avviato, ed alla cui fine scopriamo che non siamo i lettori che incorporano passivamente messaggi e informazioni precostituite dall’artista, ma siamo gli elaboratori dei segnali che sono disposti nell’opera e ci pervengono con la cadenza e la successione che ha loro imposto il progetto del pittore. E in questa scoperta ha rilievo la coscienza che noi e l’artista diventiamo i co-autori del “significato”, cioè del valore da attribuire all’esperienza che andiamo a conducendo”.(Flavio Quarantotto)

 


T0T0' TARZAN
CONTRO IL CICLOPE DELL'ARTE

Pino Milella

L'attuale "società della comunicazione" ci offre un inferno di immagini sempre più violen
Essa ci appare sempre più paradossalmente "svelata" in questo sistematico progetto prodi smantellamento delle difese latenti di ogni soggetto, attentando quotidianamenl'integrità della nostra coscienza critica individuale.
L'arte di Crescenzo, Gulliver in terra di nani, appare come rara "oasi naturale" in uno sconfinato deserto.
Questo luogo "altro" (dell' arte) è abitato da un personaggio eccezionale: Totò-Tarzan, proattuale superamento del "superuomo", o forse meglio dell' ‘oltreuomo’ nicciano, e ultimo mito possibile contemporaneo di que"fin de siecle" , eroeantieroe e solitaria presenza in un piccolo angolo di "paradiso terrestre", l'immagine slitta indefinitivamente dal reale all'immaginario in un incatenamennarrativo che è in continua variazione. L'apparizione del grande "demiurgo" sarà fatale, in una condizione di "sospensione" nello spazio e nel tempo, il pensiero si troverà "depensante" e "altrove" annullato dalla gravità dell'esistente", egli allora "canterò", la sua poesia direttamente al nostro inconscio, senza mediazioni, semplicemente apparenmanifestandosi; lo sua forza creativa ed evocativa avrà così effetti liberatori, "terapeuda qui lo sua potenza "sciamanica". Ma attenzione, lo stregone non concede repliche alla sua arte e lo sua apparizione inaspettata è uno spettacolo eccezionale, appunto "extra".

Bari, maggio 1991

 


TOTO' TARZAN

SCIAMANO DEL RIONE SANITA'

Crescenze Del Vecchio Berlingieri
E' questa un opera che nasce da un evento nevrotico e si trasforma in evento «poetico» Nevrotico, perché è parodia della parodia, tic intellettuale di chi ricorda in positivo lo mascella distorta della verità. Confessionale, perchè la sacralità è data dalle cose o oggetti presentati: "La manifestadel sacro in una pietra o in un albero non è meno misteriosa o degna della manifedel sacro di un «Dio»".
Ed ecco Totò Tarzan (Parte-nopeo, parte-che diventa per la "Tribù della Sanità", degno rappresentante delle tecniche primordiali dell'estasi, poichè per essa è mistico, magico, religioso.
E ai piedi nudi di Totò non vi è il pino delle iconografie abituali napoletane ma, l'albero della vita e della immortalità, arricchito da simboli ed equivalenti mistici (Iiana, casa, animali) e con questi elementi si ha un quadro di simbolismo lunare e iniziatico.
Anche se questa di Totò Tarzan è una ierofadi modeste proporzioni è esplicito comunl'eterno ricominciare, il continuo ritorno a un istante atemporale, un desiderio di abolire la storia di cancellare il passato, di ricreare il mondo.

Ed il rinoceronte, animale mitico, fallico, poderoso, non canta più nel coro della giunè triste ed immobile e con esso è triste il RinoTotò (piccolo nato da un rapporto tra Totò e una rinocerontina) e su questa tristezza si sente un forte "odore" d'estinzione.
Sui rinoceronti scendono gli spiriti, i quali ci indicano i segreti della natura e con essi intraprendiamo un viaggio estatico nel cielo. E il bambino che guarda e indica è lo stesso che uscendo dalla cultura tribale della Sanità è entrato nella savana dei delitti di costume e di consumo. Egli seduto sulla sua sediolina ci indica, ci guida nella magia mistica primitiva. E il suo è un momento di meravigliata solitudi è solo in una folla di persone disutili, mangiatori di fuochi fatui e "pompieri" di entusiasmo. E la scultura mediatrice degli spii rinoceronti, l'albero cosmico, RinoTotò, diventano uno spettacolo "oltre" o "extra", affabulante, estatico, ierofanico.
E questo spettacolo è "sciamanismo partenocioè espressione di vita in crisi e di notevole regressione. Ed all'interno della "dialettica delle ierofanie" che si legge la separazione radicale tra profano e sacro, tra natura e "nuova civiltà", costituendo lo frattudel reale. Ditelo a tutti, Totò-Tarzan se ne torna a casa sua, ritorna sull'albero della vita.
Giugno 1991

Pubblicazioni (estratti dalla bibliografia)

 

L. Vergine, Undici pittori napoletani, Edizione Arte Tipografica, Napoli, 1963.

C. Ballo, La linea dell'arte moderna, Edizione Mediterranea, Milano, 1964.

A.R.Masetti. Grafica italiana contemporanea, Edizione Comunità, Milano, 1965.

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E. Sossi, Luce, Spazio e Struttura, Edizione La Cornice, Taranto, 1967.

A. Bonito Oliva, Arte in Campania: ricognizione '68, Edizione Città di Capua, 1968.

C. Ruju, Possibile ipotesi per una storia dell'avanguardia napoletana, Edizione Edart, Napoli, 1970.

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E. Sossi, L'Arte Contemporanea in Italia, Edizione Presenza, Roma, 1971.

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L. Caruso, Avanguardia a Napoli, Documenti 1945-1972, Edizione Schettini, Napoli, 1975.

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C. Montana, L'inattuale pittorico, Edizione Ruccitelli, Pescara, 1986.

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L. Caruso, Sperimentalismo a Napoli 1966-1990, Edizione Belforte, Livorno, 1991.

L. Vergine, L'arte in gioco, Edizione Garzanti, Milano, 1988.

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F. GUALDONI, "Napoli di Nuovo Sorprende" il "Giorno" 21 ottobre 1979.

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G. GRASSI, "Sette pittori vogliono cambiare Napoli" «Napoli Oggi» 16 gennaio 1980.

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F. MENNA, "Gruppo Geometria e Ricerca", in «Dars» n.93, Milano luglio 1980.

C. BELLI, E. CRISPOLTI e M. BENTIVOGLIO - Presentazione del libro "L'Immaginario geometrico"

Galleria "Fiumarte" Roma Febbraio 1980.

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L CAVALLO, "Geometria e Ricerca" "II Resto del Carlino", Bologna 22 dicembre 1980.

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C. RUGGIERO, "II Gioco ambiguo di curve e rettilinei che s'alternano" "Paese sera" 20 ottobre 1980.

M. VITIELLO, "II Gruppo G.R. al Museo del Sannio" "Politica Meridionalistica" Maggio 1980.

F. MENNA, "Nel segno della Geometria", "Proposta" n.47 del 1980.

B. D'AMORE, "II Gruppo Geometria e Ricerca", Gala Internazionale" n. 99 marzo 1980.

A. CALBRESE, "II Testimone" di G. Bilotta, Edizioni I.G.E.I., Napoli 1981.

M. ROCCASALVA, "Opere su carta", "Paese Sera", 27 ottobre 1981.

G. GRASSI, "Opere su-carta", "Napoli Oggi", 26 Novembre 1981.

M. VITIELLO, "Opere di Grafica a Sorrento", Politica Meridionalistica, Anno IV, n. 11, novembre 1981.

M. VITIELLO, Nota Critica sull'opera di C. Di Ruggiero, Settimanale di Attualità Culturale

"Controcopertina - Pomeriggio", Radio Azzurra, Napoli.

MOSTRE PERSONALI:

1960: Galleria Il Cancello, Bologna

1961: Galleria Il Traghetto, Venezia

1962: Galleria Il Cancello, Bologna

1965: Galleria L'Arco, Macerata

1966: Galleria Ferrari, Verona

1967: Galleria Guida, Napoli

1969: Galleria Cenobio Visualità, Milano

1970: Galleria Il Centro, Napoli

1971: Centro Sud Arte, Scafati

          Galleria Bohème, Aversa

1973: Centro Arte Incontro, Nola

          Centro Arte Europa, Napoli

1974: Galleria Duemila, Bologna

          Galleria Visual Art Center, Napoli

1975: Centro Sud Arte, Scafati

1978: Galleria Lo Spazio, Napoli

          Centre International 2B, Bergamo

1982: Carmine Di Ruggiero. Opere dal 1956 al 1982, Villa Pignatelli, Napoli

1983: Centro d'arte Il Garage, Catanzaro

          Galleria Lo Spazio, Napoli

          Expo Arte, Bari

          Galleria Dehoniana, Napoli

1984: Accademia Fontano, Napoli

          Dialoghi col poeta. Galleria Lo Spazio, Napoli

          Banco di Santo Spirito, Napoli

          Galleria Lo Spazio, Portogruaro

1987: Gran Caffè Respighi, Incontro con l'artista, Cava dei Tirreni

          Cartetracarte, AMA, Napoli

          Natura e tempo, Castello Aragonese, Ischia

          La pittura di Di Ruggiero, Galleria Lo Spazio, Napoli

1997: Incontro con Di Ruggiero, Libreria Guida, Napoli

1998: Viaggio a Spoleto, Centro Iniziative Artistiche Culturali

          CIAC, Caserta

2000: Opere 1980 - 2000, Centro Culturale Il Pilastro Santa Maria Capua Vetere

2003: Ventinove e cinque per ventuno, Galleria San Giorgio, San Giorgio a Cremano

2006: Il punto, il cerchio, la linea , ONLUS Numero Nove, Napoli

2008: Opere 2008 , Cavallerizza a Chiaja - Art Studio, Napoli

 


Rassegne, premi, collettive, mostre tematiche : musei, pinacoteche, gallerie, centri d'arte, spazi espositivi 

 

1955

Mostra Nazionale di Pittura, S. Benedetto del Tronto

IV Mostra Nazionale di Pittura, Cesenatico

I Premio di Pittura Scipione, Macerata

VII Quadriennale d'Arte, Roma



1956

II Premio di Pittura, Matera

IV Mostra Nazionale Maggio di Bari

V Mostra Nazionale di Pittura, Cesenatico

I Mostra Nazionale di Pittura, Repubblica di S. Marino

VI Premio di Pittura, Spoleto

Premio Diomira, Milano



1957

Premio Taccuino delle Arti, Roma

Premio di Pittura, Spoleto

II Mostra Nazionale S. Benedetto del Tronto

Premio Michetti, Francavilla

II Premio di Pittura Scipione, Macerata

II Biennale del Disegno e dell'Incisione, Reggio Emilia



1958

III Mostra Nazionale Giovanile, Roma

Premio Michetti, Francavilla

VII Mostra Nazionale Maggio di Bari

IX Mostra Nazionale di Pittura, Avezzano

Premio di Pittura Isola d'Ischia



1959

Premio di Pittura, Alatri

II Biennale dell'Incisione Contemporanea Italiana, Venezia

Premio di Pittura, Spoleto

Incisori italiani a Vienna, Cracovia, Varsavia, Poznam, Bydgoszcz, Dublino

Mostra dell'Incisione contemporanea, Kunsthaus, Vienna

VIII Quadriennale d'Arte, Roma

Grafica contemporanea, Pisa

II Biennale Nazionale di Pittura, Nuoro

Premio di Pittura San Fedele, Milano

Premio Porto di Napoli, Napoli



1960

Premio Michetti, Francavilla

II Salone Internazionale / Quattro Soli, Torino

Premio di Pittura San Fedele, Milano



1961

Premio di Pittura Termoli

Premio di Pittura Michetti, Francavilla

IV Biennale dell'Incisione Italiana Contemporanea, Venezia

Premio Nazionale di Pittura Contemporanea, Marsala

Premio Nazionale di Pittura, Spoleto

Giovani artisti italiani, Napoli

XI Mostra Nazionale di Pittura, La Spezia



1962

III Premio di Pittura, Lucca

XIII Premio del Fiorino, Firenze

Premio Sicilia Industria, Palermo



1963

Mostra Premio I.N.P.S., Roma

Premio di Pittura, Spoleto

VI Concorso Nazionale di Pittura, Capo d'Orlando

II Premio di Pittura, Città di Sorrento

Mostra della Pittura Contemporanea, Bilbao, Barcellona, Madrid, Valencia, Oporto, Gibilterra

Premio di Pittura Michetti, Francavilla

V Biennale dei Paesi del Mediterraneo, Alessandria d'Egitto

Mostra Nazionale di Pittura, S. Benedetto del Tronto



1964

Premio di Pittura Michetti, Francavilla

XXXII Biennale d'Arte, Venezia

IV Internazionale d'Arte, Maratea

Mostra della critica e della giovane pittura, Verona



1965

Grafica Internazionale, Macerata

8 pittori napoletani a Milano, Berlino

Premio di Pittura Michetti, Francavilla

Mostra del disegno italiano contemporaneo, Faenza



1966

Premio di Pittura Michetti, Francavilla

L'oggetto e l'immagine, Galleria Guida, Napoli



1967

Premio Internazionale di Pittura, Acireale

Premio di Pittura Michetti, Francavilla

II Rassegna d'arte del Mezzogiorno, Napoli

Biennale d'Arte Grafica, Faenza

Proposte Uno, Avezzano

Museo Sperimentale, Torino

Premio Silvestre Lega, Modigliana

Struttura e colore, Galleria L'Obelisco, Roma

Premio Masaccio, San Giovanni Valdarno



1968

III Rassegna d'Arte del Mezzogiorno, Napoli

Ricognizione 68, Arte in Campania, Capua



1969

27 Giovani artisti, Torre Annunziata

Mostra Internazionale Premio di Pittura Conca Verde, Massalubrense

IV Rassegna d'Arte del Mezzogiorno, Napoli

Uno per, Mostra Proposte, Massafra

Galleria Cristoph Duur, Monaco



1970

Premio Posillipo Mauro Leone, Napoli

IV Biennale di Bolzano, Mostra incontro Italia Svizzera



1972

Naples and its Region, Boston

Perché l'ironia, Caserta



1974

Premio Campigna, Forlì



1975

Napoli Situazione 75, Marigliano



1976

L'informale a Napoli, Studio Ganzerli, Napoli

L'immagine altra, Antichi Arsenali, Amalfi

Rassegna di pittura e scultura astratta,

Galleria Lo Spazio, Napoli

Campania Proposta Uno, Napoli



1977

Artisti d'oggi, Galleria Lo Spazio, Napoli



1978

Linea italiana astratto-concreta, Circolo Artistico, Napoli

Geometria e ricerca, Studio Ganzerli, Napoli

 

1979

La Scuola di Napoli, Galleria Numerosette, Napoli

 

1980

Gruppo geometria e ricerca, Galleria Fiumarte, Roma

 

1981

Gruppo geometria e ricerca, Galleria Il Moro, Firenze

I segni della geometria, Vienna

20 artisti: opere su carta, Sorrento

Expo Arte, Bari

Momenti delle pittura non figurativa, Centro Culturale Lo Spazio, Napoli



1982

Arteder, Mostra di arte grafica, Bilbao



1983

Plexus '83. Pittori e scultori in Campania, Napoli

Erranza Poetica, Taverna, Cosenza

Continuità dell'astrattismo, Galleria A come Arte, Napoli



1984

Festa Nazionale dell'Unità, Roma



1985

XII Premio di Pittura, Sulmona

Sapere Sapore. Arte in Italia 1958-1985, Castello di Baia



1986

Umanità. Arte in Campania, Napoli

L'inattuale pittorico, XXI Premio Vasto

Premio Diomira, Milano



1987

Omaggio, Pomigliano d'Arco

Educare è, Istituto Landriani, Portici

Propilei, 17 pittori europei, Portogruaro

XXX Biennale d'Arte Città di Milano

 

1988

Napoli scultura, Palazzo Reale, Napoli



1991

Fuori dall'ombra : Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal '45 al '65. Castel Sant' Elmo, Napoli

 

1996

Geometria e Ricerca 1975-1980, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli

 

1997

Gener-azioni, Palazzo della Pretura, Casoria



1998

Premio "Vita d'Artista" , Reggio Calabria

Premio "Capasso" , Sorrento



1999

Gener-azioni, Villa Campolieto, Ercolano

Serigrafie, Galleria San Giorgio, San Giorgio a Cremano Na



2000

Napoli 1950-59 , Palazzo dei Diamanti, Ferrara

 


2001

Vele d' Artista - Maggio dei monumenti 2001

Napoli, Castel dell'Ovo, Sala delle prigioni

Napoli, Lungomare Caracciolo

 

2002

XXXI Premio Sulmona



2003

Segni d' autore, Istituto Statale d'Arte "U.Boccioni", Napoli



2004

Opere grafiche, Galleria San Giorgio, San Giorgio a Cremano Na



2005

Arte in Calabria 1960-2000, Museo Arte Otto Novecento -MAON , Rende Cs

Sometimes together - Napoli. Un museo, la storia, gli artisti , Casoria International Contemporary Art Museum, Casoria

Fare il mondo piccolo, Museo Minimo, Napoli



2006

Il Museo e la Città, rassegna opere Museo di Arte Figurativa Contemporanea, Potenza

Prospettive verbo visive, XVIII Porticato Gaetano, Palazzo San Giacomo, Gaeta



2007

Astratti !!! Si , Massi Arte Contemporanea, Roma

Assaggio d'artista, Massi Arte Contemporanea, Roma

In Cartis, Galleria M.I.C.R.O., Roma

Naturalmente astratto, Massi Arte Contemporanea, Roma

Quaranta per quaranta, Galleria Artanda, Acqui Terme

Natale a regola d'arte, Massi Arte contemporanea, Roma

Premio Naz.Biennale di Pittura Murale Casoli Pinta 2007, Atri (Te)



2008

Arte e Scienza , Facoltà Ingegneria, Real Casa dell'Annunziata, Aversa

Campi Flegrei. Mito, storia, realtà , Castel Sant' Elmo, Napoli

Nel segno della solidarietà 3, Sala Ubaldi, Fabriano

Da Sud al Sud (Aniconico meridionale), Pinacoteca Comunale di Arte Contemporanea, Gaeta

Rigore e Tremore, Centro Culturale Il Pilastro, Santa Maria Capua Vetere, Caserta

Carte e cartacce, Massi Arte Contemporanea, Roma

Opere per una collezione, Massi Arte Contemporanea, Roma

Le carte dell' arte, Palazzo Mazziotti - Caiazzo (CE)



2008/2009

Ragionamenti d'Amore , Movimento Aperto, Napoli

Quadrato d'Arte , Libra Arte Contemporanea , Napoli

Quadrato d'Arte , Libra Arte Contemporanea , Catania

Rassegna d'Arte, Massi Arte, Roma



2009

Tracce Segniche, Castel dell'Ovo, Napoli

 

2009 / 2010

Astrazioni Contemporanee, Massi Studio d'Arte, Roma

 

2010 Museo " Napoli Novecento 1910-1980 " per un museo in progress. Castel Sant' Elmo, Napoli

Giorgio AGNISOLA - Carmine Di Ruggiero ventanni di opere

Massimo BIGNARDI - L'energia di un Vesuvio mai spento

Achille BONITO OLIVA - Carmine di Ruggiero

Michele BONUOMO - La nuova maniera di Carmine Di Ruggiero

Toti CARPENTIERI - Carmine Di Ruggiero

Luciano CARUSO - L' ossessione del modello

Vitaliano CORBI - Il ciclo della luce

Enrico CRISPOLTI - Geometria e Ricerca : Carmine Di Ruggiero

Gillo DORFLES - L'oggettualizzazione dell' immagine

Luigi Paolo FINIZIO - Note sulla pittura di Carmine Di Ruggiero

Donatella GALLONE - Silenzio. Nella stanza del pittore

Claudia GIANFERRARI - Di Ruggiero al Cenobio Visualità

Mario MAIORINO - Momenti di una pittura italiana

Alessandro MASI - La pittura al tempo della luce. L'arte di offrire libertà alla fantasia

Filiberto MENNA - La costruttività dell'immagine e dello spazio

Rosario PINTO - Un accostamento discreto alle carte di Carmine Di Ruggiero

Ugo PISCOPO - La corda interna del silenzio

Maria ROCCASALVA - Di Ruggiero a Cavallerizza a Chiaja

Ciro RUJU - La simbologia di Carmine Di Ruggiero

Giorgio SEGATO - Diverse Gener-azioni. Sentire Spazi, Costruire Idee.

Gabriele SIMONGINI - Viaggio a Spoleto

Franco SOLMI - La pittura di Di Ruggiero : un punto certo di riferimento

Angelo TRIMARCO - Geometria e Ricerca

Aldo TRIONE - Dal ciclo dei fogli "I dialoghi col poeta"

Laura TURCO LIVERI - Carmine Di Ruggiero. Il corpo della luce

Lea VERGINE - Undici pittori napoletani - Chi fa rumore in giardino?

Oreste FERRARI - Carmine di Ruggiero

Gino GRASSI - Variazioni sul silenzio

Arcangelo IZZO - L'utopia della sensazione animatrice della materia inerte

Riccardo NOTTE - Dialettica fra l' eterno e il tempo in Di Ruggiero

Mariantonietta PICONE PETRUSA - Il gruppo Geometria e Ricerca : Carmine Di Ruggiero

Nicola SCONTRINO - Le ragioni di una presenza

Angela TECCE - Il rinnovamento della pittura in Italia

 

 

 

Giorgio Agnisola

CARMINE DI RUGGIERO VENT' ANNI DI OPERE

Una duplice tensione interna sembra animare le immagini di Carmine Di Ruggiero: nelle lontane soluzioni informali e materiche, degli anni Cinquanta e Sessanta, segnate da forti accensioni cromatiche, ma anche da morbide apprensioni segniche e visive, in quelle dell'intermedio periodo astratto-geometrico degli anni Sessanta, caratterizzato, sotto il profilo formale e compositivo, da un'articolata e pure modulata pronuncia costruttiva: nella successiva rinnovata immersione nella temperie astratta, segnica e pittorica, connotata da una sorta di naturalismo intimista, poetico e concettuale: negli esiti più recenti, che riaprono anche in chiave neopop, il capitolo della ricerca materica, entro una più vasta ed essenziale sperimentazione visiva.
In realtà si avverte, anche nelle soluzioni più fresche e libere, come nella lunga e felicissima serie di opere su carte, dei primi anni ottanta, titolata "I dialoghi col poeta", una contemporanea presenza di segni vibrati sulla corda di una interna e silenziosa visione (tesi a recuperare metaforicamente spazi addensati e indistricati della sensibilità e dell'emozione) e di indicatori (in genere frecce, archi, tratteggi...) che intervengono come segni di orientamento per chi legge, ma anche per chi dipinge, introducendo nell'immagine spinte e risalti di taglio più simbolico e mentale.
La stessa attenzione puramente visiva all'esito dell'immagine, che pure è determinante nell'economia espressiva dell'opera, si ricollega alla lucidità estetica del maestro più che ad una scelta per così dire tecnologica, alla sua forte sensibilità percettiva, ad una sua capacità interpretativa istintivamente interna e intensa degli stati dell'essere e del sentire.
In effetti, da subito l'arte di Di Ruggiero acquista un connotato che, al di là della soluzione stilistica, appare sempre trascrittivo di sé, narrativo ed autonarrativo: rilievi formali e parvenze segniche e cromatiche, ma anche geometrie ed interventi oggettuali e matrici di variabile natura, compongono sulla tela e sulla carta o nello spazio con un taglio di forte compattezza psicologica ed emotiva. Ne è prova indiretta la stessa libertà del segno, che appare sempre vibrato come se fosse assistito da una sorta di prefigurazione interna, di illuminazione anticipatrice, anche se l'opera nel concreto si compie nel suo farsi, nel suo accadere compiutamente nel momento stesso dell'espressione.

Ciò è ancora vero nelle opere attuali di Di Ruggiero, in cui l'artista compie una sorta di rifiltrazione delle esperienze precedenti, di recupero teso anche ad una semplificazione, ad una essenzializzazione visiva, soprattutto sotto il profilo tonale, ma altresì sotto quello simbolico ed allusivo. La luce, del resto, è sempre stata uno dei medium rivelatori della sua arte. Una luce che emana prima dell'opera stessa e dopo, come risultante di una sintesi visiva che implica una sintesi espressiva. Una luce che oggi esplode, abbacinante, evocando la rarefazione e la purificazione della stessa materia che recupera nel suo impasto laceri di vita, segnali riflessi del profondo, ma anche, provocatoriamente, oggetti d'uso quotidiano (persino gli attrezzi del pittore), in cui sembra compiersi il teso bisogno di una pensosità più vasta, umana e sociale: intensa e discreta, senza clamore, distillata nel silenzio.


Giorgio Agnisola

Successo dell'esposizione
al Centro Culturale "II Pilastro"
in "La Fonte", 2000


 

Massimo Bignardi

L'energia di un Vesuvio mai spento

 

[...] Per certi versi le esperienze di Renato Barisani e di Carmine di Ruggiero viaggiano in una sorta di sincronia ideale, che, in alcuni momenti, li ha visti percorrere una strada comune e penso soprattutto al momento di ricerca, nella seconda metà degli anni settanta, del gruppo dell' Immaginario Geometrico, così come l'ha voluto chiamare Luigi Paolo Finizio. Va osservato che, sgombrando il campo da qualche confusione storiografica, quando nascono le prime esperienze di Carmine Di Ruggiero, dichiaratamente astratto espressivo, con opere quali ad esempio la Crocifissione del 1957 o il Muro e arbusti, L'urlatore entrambe del 1958, il percorso di Barisani aveva già attraversato la grande stagione del MAC ed era approdato ad una lettura nuova ed organica di un materismo informale che guarda con attenzione ad un «reale tradotto a traccia» (Vergine). Ve forse in questo un guardare ad un comune denominatore: voglio dire che entrambi vivono una situazione intellettuale che è la misura di un nuovo porsi, eticamente legato al tessuto storico ed antropologico della propria terra. Barisani in quegli anni opera una scelta che poi si mostrerà fondamentale negli anni. In tal senso si guardino i lavori realizzati sullo scadere degli anni ottanta: sui fondi di impasti materici, sabbiosi, l'artista faceva vivificare elementi tratti da un registro naturale di forte immaginazione, ricco di una solarità intensamente mediterranea, rivedendo il dialogo tra forma e materia, tra materia e colore, tra colore ed emozione.

Una tensione che è presente in opere quali Tempo sul muro, o anche Tufo e sabbia entrambe del 1959. Nell'ampiezza della sua ricerca, come già osservato in uno scritto del 1986, Barisani ha sempre guardato al rapporto che si instaura tra contenuto e forma: questo sin dalle esperienze degli anni quaranta, si veda ad esempio Nudo sdraiato, un gesso del 1948; e prima ancora nelle opere plastiche dell'esordio, Studio di modella del 1941, avvertendo echi della scultura di Maillol, filtrati della lezione di Martini, sino a giungere alla cultura italica, in chiave di interpretazione storico-antropologica, espressa da Marini. Quest'ultima sensibilizzerà il ciclo delle Teste realizzate in gesso colorato, per la quasi totalità andate distrutte, eseguite da Barisani tra il 1948 e il 1949.

Le motivazioni di fondo del suo operare verso un più stretto rapporto tra contenuto e forma sono espresse con grande lucidità anni dopo con l'adesione al Movimento Arte Concreta, e poi con il momento di attenzione ad una sorta di informale-materico, al breve avvicinamento alle esperienze del Gruppo 58 alle successive sculture meccaniche realizzate nella prima metà degli anni settanta, sino alle opere realizzate tra il 1984 e il 1989 che l'artista chiama di «astrazione organica». L'esperienza complessiva di Barisani sembra guardare a quella circolare sequenza annotata da Kandinskij nel 1910. La sequenza 'Emozione-senso - opera-senso-Emozione', spiega sinteticamente il valore assunto dalle vibrazioni spirituali dell'artista «che deve perciò trovare, come mezzo d'espressione una forma atta ad essere recepita. Questa forma materiale è il secondo elemento, cioè quello esterno, dell'opera d'arte» (Kandinskij).

L'esperienza artistica di Carmine Di Ruggiero si muove nei precisi confini disegnati da un assunto di Pascal, al quale spesso l'artista ricorre: «Due eccessi, escludere la ragione, ammettere solo la ragione». Il confronto penso che si delinei nei movimenti tra luce, superficie esplosiva di colore, sostanzialmente identificabile, spesso fenomenica e la luce, lo scuro, l'assenza di colori. La ragione che trova conferma nel giorno e la notte, il luogo del sogno, dell'inconscio. La pittura di Di Ruggiero ha questo doppio canale che corrisponde, anche, al suo difficile approccio con la città, con Napoli. «È uno spazio dell'immaginario collettivo che si dibatte tra contraddizioni e dualismo connaturati nell'animus del napoletano - osserva l'artista in un'intervista del 1985 - che ama dibattersi tra Vico e Pulcinella, tra Luca Giordano e "Rossi pittatutto", tra Croce e la vita rutilante e inventata dei vicoli, tra il "barocchetto" e i problemi degli altiforni dell'Italsider, tra camorra e perbenismo, tra la cultura viva e aperta e quella dei rimpianti per una serenata a Maria».

Massimo Bignardi

Electa, Perugia, 1992


Achille Bonito Oliva

CARMINE DI RUGGIERO

La contestazione che oggi un operatore di cultura può attuare nei confronti di una realtà che si presenta a pezzi, nella doppia polarità della visione accelerata (impressione) o dell'estremo evidenziamento è quella di un rilevamento e di una susseguente modifica del dato in formulato. Ovviamente nella definizione del dato entrano pure i modi istituzionali di visione attraverso cui questo si presenta. Ed allora il compito dell'artista risulta essere quello di riqualificare il dato, dandogli, appunto, una struttura visiva che corrisponda assolutamente alla sua ossatura di base, depurata da sovrastrutture e schemi precostituiti di percezione. Carmine Di Ruggiero come metodologia del proprio fare ha posto alla base un atteggiamento operativo, che cerca assolutamente di stabilire ed impostare un tipo di visione, in cui le leggi ottico-percettive abbiano un fondamento razionale e cioè verificabile. Per fare ciò egli analizza uno specifico del campo pittorico, lo spazio, con una concezione logico-formale della realtà e cioè la definizione dell'elemento spaziale come estensibilità, che per essere una qualità non può essere contenuta appena nella superficie estetica. Tale concezione di stampo razionalistico, già imposta e presuppone anche l'intenzione da parte dell'artista di scardinare le leggi percettive, che, per la loro stratificazione, hanno dato alla visione un occhio precostituito. Qui appunto si intende modificare tale atteggiamento ed opporre al momento stereotipato della percezione un momento assolutamente rigoroso e sperimentale. Per fare ciò Di Ruggiero parte da una definizione volutamente astratta e cioè formale dello spazio e per realizzare il formulato si serve strategicamente della qualità di congelamento del colore bianco, il quale, distribuito sui piani formanti la superficie del quadro, determina un unico tempo di percezione. Infatti il bianco ha una capacità di notevole espansione e quindi di estroversione dal quadro che provoca un avvicinamento della superficie estetica verso l'esterno, verso la retina dell'occhio dello spettatore. Cosicché il colore riesce a contenere in unica dimensione visiva le profondità dei vari piani sovrapposti e la non emergenza di questi viene realizzata appunto attraverso l'attuazione e la verifica di leggi di percezione cromatica. E proprio dall'analisi esperenziale consegue anche la constatazione dell'attitudine del bianco a stabilire con lo spettatore un rapporto di contemplazione. Un rapporto, che, cosi configurato, presupporrebbe una visione statica della realtà, inconcepibile per l'uomo moderno, il quale si trova posto e trasposto su una scala non più antropocentrica dei valori ma calata direttamente in mezzo agli eventi della situazione storico-esistenziale. Obbiettivamente l'artista non può non avere coscienza di ciò e naturalmente ribalta nella propria opera la costante indeterminazione, che accompagna i rapporti del singolo con la realtà esterna. Di Ruggiero allora restituisce tale necessaria posizione attraverso la dislocazione asimmetrica dei vari piani, che hanno cosi la tendenza a forzare il centro di gravita della superficie estetica. Si crea cosi una tensione, che supera una ricezione meramente contemplativa dell'opera, tra il congelamento formulato dal colore bianco e l'atteggiamento dei piani che tendono verso l'esterno, oltre i confini del quadro. Anche i segni disposti sulla superficie che la attraversano, si spezzano ai bordi dell'opera, ad indicare appunto l'impossibilità per essi di esaurirsi solamente nello spazio sezionato dall'operazione estetica. Si crea cosi il rimando obbligato verso la realtà esterna, dove esiste un mercato visivo intensificato dalla presenza di segni istituzionalizzati e dalla qualità dei materiali impiegati per la produzione ed esibizione dei segnali. Infatti Di Ruggiero usa dei colori industriali, i quali hanno la costante dell'immediata emergenza visiva, cosicché lo spazio estetico non diventa un luogo asettico dove si esibisce una pura forma, bensì una superficie-oggetto dove l'evento è costituito appunto dalla tensione tra il taglio razionale dello spazio e la vitalità riprodotta del contesto industriale. Cosi spesso i piani del quadro tendono ad «entrare» nella realtà esterna al quadro e nello stesso tempo i segni di colore industriale sono disposti in bande nette che trovano una precisa rappresentazione nella linearità appiattita della loro esposizione. Risulta evidente l'intenzionalità di contestare le leggi della visione, eccessivamente culturalizzate, attraverso la instaurazione di un comportamento ottico-percettivo, che riesca a restituire l'oggetto estetico come struttura visiva pura, che nello stesso tempo conserva fissata su di sé la dislocazione spaziale e l'immagine segnica della realtà circostante, per tendere alla fine alla formulazione di rapporto rigoroso ed oggettivo, cioè continuamente verificabile, con la realtà esterna.

Achille Bonito Oliva

dal catalogo della mostra alla Galleria «Guida» - Napoli. aprile 1967


 

Michele Bonuomo

LA NUOVA MANIERA DI CARMINE DI RUGGIERO

Visitando quest'ultima personale di Carmine Di Ruggiero, mi sono tornati in mente il suo Racconto marino, una tela del -61, e uno scritto di Lea Vergine del '63. Nel primo una sorta di esplosione cromatica irradiava dal centro una scarica materica investendo tutta la superficie del quadro: un gesto rapido e senza ripensamenti, imprimeva quella esuberanza e quella radicata facilità d'intuito ben individuata nel testo della Vergine: «Un fare concitato, un temperamento versato in un segno aggressivo di impostazione naturalistica sì ma anche di remota origine barocca». Queste parole - ai più può sembrare strano o riduttivo - sono ancora chiarificatrici ben guardando l'ultima produzione di Di Ruggiero. Ammettendo questo, è lungi da noi un giudizio di immobilità nella ricerca di Di Ruggiero: anzi proprio conoscendo i suoi scatti multidirezionali, le sue fughe senza pentimenti, le sue esperienze environmentali o popiste, o quelle ancora di derivazione suprematista, si può affermare che questa sua 'nuova maniera' stia a segnare una sorta di compimento spiralidale del suo continuo muoversi. Anche quando può sembrare che stia per tornare al punto si partenza, quando cioè il cerchio stia per chiudersi, Di Ruggiero imprime uno scatto al suo moto e ricomincia con una nuova curva che ancora una volta sfuggirà alla facile tentazione di chiudersi su se stessa. Se è vero che in queste ultime opere Di Ruggiero ha ritrovato la tensione 'sconvolta' dei lavori degli anni Sessanta, è ancor più vero che tutto questo acquista ancor più forza e suggestione alla luce di tutto il suo inquieto percorso. Questa sua nuova pittura è densa di emozioni espressionistiche, dove il segno veloce s'accompagna ad un ancor più veloce desiderio di ghermire una forma squassando sue componenti emotive e visive. «Il rapporto materia segno supera ogni schema - scrive Finizio - e la liberazione dei vincoli della tecnica lo porta a concludere che tutto può farsi pittura. Per quanto riguarda l'immagine, essa esiste come idea matrice, come pretesto di avvio, subito superata da un colore libero, maturo, orgiastico, fatto di spessori e di scavi che danno l'idea concreta del piano». La maturità di un pittore è qualcosa che somiglia sempre più spesso ad uno scrigno colmo dal quale volendo può venire fuori ogni sorta di segreta meraviglia, e nello scrigno di Di Ruggiero sono serbate ancora tante sorprese.

Michele Bonuomo

Il Mattino, Napoli, 19 maggio 1984


 

Toti Carpentieri

CARMINE DI RUGGIERO

A fondamento del lavoro pittorico di Carmine Di Ruggiero v'è l'oggettivazione del discorso estetico, intendendo con tale frase la volontà di restituire al simbolo la sua essenza visiva. Ed infatti, l'elemento formale diviene timbro, liberandosi parzialmente dalla struttura, e costruisce nella progressiva variazione della sua percettibilità una sorta di superficie estetica che però non diviene (e non lo è in partenza) asettica, nella sua accezione lessicale. La presenza geometrica (rigorosamente costruita) è razionale nel suo momento genetico e tende a definire un elemento come realtà ma anche come possibilità di spazio: fondamentalmente, è un certo ragionamento strutturale che potrebbe trovare i prodromi in alcune presenze americane ben evidenti, anche se il processo costruttivo si libera dal pragmatismo, che non ci è congeniale, divenendo rapporto indeterminato nella verifica di una realtà ottico-percettiva. Ed il segno si articola nella sua progressiva libertà di fruizione in una maniera tale da mettere in evidenza come la localizzazione dell'esigenza estetica nella limitazione superficiale del quadro, sia soltanto illusoria, in quanto l'opera è aperta, e nella sua struttura (costruzione quindi) e nella sua leggibilità anche e soltanto come atto estetico, o alternativamente ludico. Successivamente. Di Ruggiero, esaspera il discorso spaziale pervenendo alla costruzione del simbolo, facendo si che la figura diventi oggetto: a tal punto risulta evidente anche la non necessità del policromatismo che si annulla nella percezione del bianco come colore ibernato. E la percezione delle cose diviene totale sia come giustificazione che come capacità di lessico.

Toti Carpentieri

Arte Duemila Milano, maggio/giugno 1973


 

Luciano Caruso

L'ossessione del modello

II modello ideale eterno come fondamento di decifrazione cosmica (oggi si direbbe di decodifi- cazione, ma è lo stesso); ma «non vi sarebbe indicazione perché non vi sarebbe alter ego»; il modello esaustivo è un sogno antico; una ars mera-ars? — che si perde nel mito; Platone non rientrando che all'inverso in questo tentativo; ma c'è una più lunga tradizione; come lo scoprire o fissare le regole perché il modello corrisponde ... e l'ingenua fiducia che: il dinamismo del reale possa essere fermato; e il più dell'universale possa essere ricavato dal particolare; dai materiali di altra natura; per poi arrivare al salto finale: quasi come «la proposizione enuncia qualcosa soltanto in quanto è un'immagine», ma non proprio; un modello per concludere la comprensione della causa prima; dove: il principio è questo: non c'è nulla nell'essere che non possa essere ricondotto a un'altra cosa; e tutte le cose rimandano ... a un modello ideale eter- no; e la tautologia si chiude; perfetta e senza margini; cosi entrare in quest'ordine di idee; signi- fica giocare un gioco pericoloso; si rischia di restare schiacciati dalla stessa perfezione evoca- ta. Che dire allora se «il mondo reale esite solo nella presunzione costantemente prescritta che l'esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo? Si tratta di una certezza o di una presupposizione'! (a dar retta ad HusserI); il sentimento dell' Impossibilità del modello è solo un esempio; o è la dimostrazione (convincente?) dell'annullamento a livello dell'ego ope- rante; perdita del reale e sua reinvenzione a livello di turbamento della coscienza? momento strutturale della lettura e ritrovamento del modello; ne ideale ne eterno; ma costitutivo pur sem- pre di una mondanità alterata dell'agire; in ultima istanza la linea di demarcazione che l'autore introduce; compromette solo la continuità o anche la conseguenzialità dell'esperienza in atto? (se) il modello è un limite; dai molti significati non tutti (forse) afferrabili; perché a voltez; si pre- senta come avvenimento chiuso; e originale (con un suo ruolo di matrice); vedi affermazione dell'universalità; oppure come mezzo; funzione strutturale; che assicura la mediazione fra l'au- tore e il mondo; (e si tratta, dunque, di un vero e proprio rinvio; del rifiuto sotterraneo; costitu- zione del (proprio) mondo); e anche: come conclusione; termine finale della ricerca; interiorizza- zione del sentimento di rinvio; esperienza di un oggetto (modello) intenzionale; dove il modello (qui, nell'accezione dell'autore) è un limite in tutte e tré le accezioni; allora: dall'allentamento dell'ordito che la critica; in qualche modo è costretta ad operare: nel suo oggetto; si parlerà: di modello assoluto; ogni volta: che il modello è visto; come matrice del desiderio ordinatore del caos-intorno; o del nulla (tela bianca, secondo le affermazioni dell'autore); si avrà poi un model- lo relativo (dalla psicologia del vissuto); nei rapporti di derivazione-opposizione: con l'esistente; che il modello aiuta a decodificare: in vista di una semantica (assiomatica?); in fin dei conti ma- niacale; si può aggiungere il modello reale (nel senso della scolastica): struttura costitutiva trascendentale-trascendente; che tutto esaurisce dentro di sé; e si pone come il segno esausti- vo; quello più vicino alla morte; il resto è semplice ipotesi; o forse scoperta (vero e proprio ritro- vamento); come il modello immaginario o il modello differito; di continuo spostato: fuori posto, nel continuo gioco degli specchi della repressione-vanificazione; liberazione e riaffermazione dei legami; ma sempre in posizione di desiderio (inaccessibile) e possibilità ricorrente. Qualun- que prodotto futuro è riconducibile ai suoi elementi di partenza; si afferma; ma è chiaro: che nella misura in cui "gioca un gioco" l'autore non trae nessuna conclusione; o scioglimento dal- le forme essenziali; "giocare" diventa immediatamente "agire"; abbiamo visto; in accordo con certe regole scoperte o stabilite; per la prima volta; e già questo sarebbe un uscire dal semplice gioco; per sciogliere la struttura del mondo; per concludere che si è agito in questo modo; se non interviene il meccanismo di "fuga delle idee"; in conformità di una regola generale; supera- ta; è il caso di dire, in base ad una iperattività ossessiva del modello; «perché parlo sempre del- la costrizione da parte di una regola? perché non parlo del fatto che posso volerla seguire? que- sto infatti, è ugualmente importante» (vedi: Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica). Finalmente: risulterà possibile costruire una tavola provvisoria; del tipo di quella legge che segue: al cèntro della quale si trova la direttiva semantica che la lotta sperimentale dell'autore; ha cercato di sviluppare nei suoi insiemi: modello assoluto - desiderio - semantica

modello relativo - derivazione - esistente

modello reale - opposizione - trascendentale

modello immaginario - struttura - meta-analisi

modello differito - invenzione - liberazione dal desiderio - significato

Dove: le varie nozioni di modello; stanno ad affermare che ogni tipo di conoscenza; è rappre- sentazione del reale-dato-affermato o esperito; genesi e derivazione dei modelli; sono situati nel secondo elenco della tavola; resta da sottolineare; la chiusura perfetta (vedi: desiderio) del- la teoria su se stessa; ma il terzo elenco (della/nella tavola) nel concludere con la liberazione del significato; introduce (dalla capacità isolata di desiderare la nozione di dialettica; cioè la pratica di una serie di rapporti impossibili; che l'autore volontariamente introduce; montando dispositivi che rimandano al referente-pratico e non più solo formale; «non è un modello che esaurisca un essere»: ma l'uso dei modelli che esauriscono il modello, sì! Il modello, certo, è assunto; da parte dell'autore: come eidos di una precisa realtà (il cammino anche all'inverso è lo stesso (?)); a sua volta forma precisa e perfetta (?), e non come modulo; cosi: il richiamo che immediatamente; il lettore distratto potrebbe stabilire; con l'astrattismo storico: è inesatto da- to che; il suo concetto di modello non mette "in rapporto il pensiero formale con il suo ester- no"; si dovrà perciò ricorrere; alla nozione di reattivo; non in termini rigidi, ma critici, certo; rilet- tura che introduce una nozione di: distanza-vicinanza che ribalta (ha l'effetto di ribaltare) i nessi costitutivi di quello a vantaggio dell'operazione presente. Lo stato di "forza produttiva" interna del modello; (che è solo l'inizio del percorso dialettico); in questo caso il triangolo; (e sarà me- glio lasciare da parte simbologie: complesse o meno: referti psicanalitici: inconscio collettivo: e tanto meno: significati sessuali); basta la perfezione magico-geometrica altrettanto illustre ed antica; permette di raggiungere il massimo di estensione (nelle combinazioni; o anche da solo); "che possa ritrovarsi senza abbandonarsi allo spazio"; e, insieme, il massimo di: concen- trazione dell'operazione (a volte con motivazioni evidenti e a volte senza); per stabilire la dispo- sizione (ritenuta reale ed esauriente); e nello stesso tempo contraddirla; (quale sarà in concreto la miglior forma che si adatti all'operazione; per poter poi passare alla realizzazione concreta dell'universale?); ora: questo primo movimento dialettico dell'immagine modello; fra estensio- ne e concentrazione avviene su di un piano; (comunicazione di un solo modo del pensiero); che in qualche modo afferma una sorta di scientificità ed assicura l'unità fra sintassi formale e campo intuitivo; accentuando la complessità di fondo del rapporto; (lasciando da parte le diffi- coltà interpretative); che l'autore stabilisce con il mondo riportato ai suoi elementi essenziali; in questa prospettiva di pensiero; per poi procedere ad una verifica semantica della corrispon- denza; (si mostra una conoscenza dall'interno; che attinge l'assoluto, cioè la cosa, l'oggetto, quale effettivamente è in se stessa; mentre al presente si può costruire solo un meccanismo di avvicinamento; esterno relativo); con il massimo di rigorosità scritturale, consentita dal model- lo. Ma: niente può dimostrare che quel rigore si sviluppi secondo il modo indicato; il rigore in questo percorso altamente sperimentale: si rivela nell'agire; dunque nel significato degli insie- mi che vengono costruiti; ( è evidente che il procedere dell'indagine non è sottoposto del tutto; all'arbitrio del singolo; ma segue una direttiva che trae origine: dalla problematica della stessa indagine); cioè: gli insiemi sono il momento di connessione con il mondo (quindi sono il mo- mento materiale vero e proprio); dopo quello concettuale del modello come dimostra (in oppo- sizione a gran parte della pittura d'oggi); il nesso che si stabilisce (in modo tutto particolare, ve- dremo); fra modello e spazio: «dunque è la 'pittura' a tornare in primo piano come genere, e non potrebbe essere altrimenti, e genere d'azione sensibile, peso, fatto fisico, concentrazione, uno spazio che tocca ad ognuno gestire ed agire (e ancor prima, fisicamente, come presenza), è un momento di discontinuità, luogo, energia, condensazione di possibilità e virtualità» - Paolo Fossati - ; l'autore, invece, anche se parte da un piacere simile del gesto (quasi fisico, appunto, come dice); di dipingere e di usare il colore si muove in uno spazio asettico; senza prospettiva, assunto come forma (il quadrato della tela); chiusa e quindi falsa posta a simboleggiare il vuoto bianco; su cui si strutturano i vari incontri del modello; (dunque: l'approfondimento dell'indagi- ne conduce al rinvio: di ogni scientificità - oggettualità; costituita a una correlativa struttura es- senziale dell'intenzionalità che è per essa costitutiva: dunque al rapporto fra il mondo inteso; come universo di trascendenze costitutive e i momenti strutturanti; o costitutivi di quest'univer- so; al rapporto tra noema intenzionale e noesis intenzionale; tra prodotto trascendente e pro- durre trascendentale: tra vita vissuta e vita vivente o agente; - vedi: Ludwig Binswanger, Intro- duzione . . . ); sorge quindi un secondo movimento dialettico: fra lo spazio bianco e lo forme perfette del modello; non a caso (si afferma) colorate; violentemente; che è lo stesso che si può ritrovare nel rapporto fra spazio falso; il quadrato bianco e il modello triangolare (inteso come fattualità); dalla cui compenetrazione vien fuori una lettura metalinguistica del reale: (l'impe- gno consiste nell'atteggiamento più aperto; sui problemi di fondo della comunicazione); (se) queste operazioni: permettono, in effetti, una critica totale dei processi stessi di lettura; attra- verso una serie di montaggi (veri e propri ragionamenti); che: intaccano la sicurezza della strut- tura nelle varie iscrizioni (che il sistema così: costruito consente o respinge); ne risulta che l'operazione si sviluppa sempre in entrambe le direzioni: gli incastri; gli insiemi che sorgono dall'uso del modello nascono; in funzione del vuoto e si dispongono frontalmente (tuttalpiù si sovrappongono: ma come superfici senza sospetto di profondità); pur articolandosi e dispo- nendosi in un modo sempre nuovo: perché hanno la stessa forza dimostrativa di una equazio- ne; perché quello che conta è portare in primo piano e mettere in evidenza; la costrizione gene- rale della regola (ne l'indagine può ritenersi conclusa con la sola descrizione dei processi ca- ratteristici); resta così: che per l'autore il solo modo chiaramente possibile per; indicare la dif- ferenza - unità del modello e dello spazio; bianco - della semantica e del vuoto - è il rapporto meta-analitico; tra la figura - l'oggetto significato; è il modello che diventa (nell'uso) una vera e propria categoria; (il colore di cui è rivestito ha il ruolo di sottolineare; il carattere indipendente del modello stesso: rispetto al fondo; quasi come di suoni musicali che pur spaziandosi nella rappresentazione: vivono solo in un altrove dallo spazio). Il terzo momento dialettico (che: l'autore introduce per ultimo; ma è quello che risulta piena- mente esposto al primo sguardo); che serve a dare unità a tutta la serie di lavori e a farne un'opera sola; è quello che si sottolinea con una struttura rigidamente disposta: anche nella semplice organizzazione della lettura); fra elemento dipinto (colorato) ed elemento tridimensio- nale (bianco); al centro della salar quasi come la concretizzazione di una vera e propria idea pla- tonica; (cosicché scatta una duplice prova di coerenza relativa/relazione); fra il modello rappre- sentato (come su di una mappa) e il solido fissato: nella sua purezza; con implicazioni realisti- che pur permanendo come rappresentazione astratta; (la stessa inaccessibilità dovrebbe: in qualche modo comprendersi; sulla base del notevole disturbo che il rapporto; dialettico nella stessa costituzione dell'opera; "mostra" come conseguenza dell'isolamento del modello).

Luciano Caruso

dal catalogo della mostra "Centro Arte Europa" 1973 - Napoli


 

Vitaliano Corbi

IL CICLO DELLA LUCE


Quali siano le cause del lungo intervallo che separa le ultime opere del 1980 da quelle successive, realizzate da Carmine Di Ruggiero in torno alla metà di quest'anno, lo dicono le profonde fenditure aperte nelle volte e nei muri dello studio dell'artista dal terremoto del 23 novembre. Ma evidentemente non sono stati, questi mesi di forzata inattività, un periodo vuoto di riflessioni e di propositi, di ricerche intuite ed in qualche modo prefigurate anche nei loro probabili esiti, se ne è scaturito, alla fine un gruppo di tele di così solidale coerenza da comporre come un ciclo e quasi un unico grandioso polittico sul tema della luce.
Veramente, questo tema, che s'era annunciato energicamente fin dallo scorcio degli anni Cinquanta facendo deflagrare con l'impasto cromatico la stessa compagine figurativa dell'immagine, ha sempre e profondamente attraversato l'esperienza artistica di Di Ruggiero. Anche quando questa, dopo aver imboccato la strada di un'esplicita e tangibile oggettualità, sembrò inoltrarsi nei cieli della "divina geometria". Ma ora - e si direbbe proprio discendendo da quelle imperturbate altezze - il tema della luce ritorna segnato da delicatissime insorgenze percettive e da vaghe connotazioni emotive che, mentre non lo fanno precipitare d'un colpo nel mondo degli eventi esistenziali, lo espongono tuttavia al soffio delle memorie e dei desideri. Un chiarore diffuso ed omogeneo dilaga sullo schermo delle tele. I diversi valori cromatici, materici ed oggettuali sono tutti riassorbiti nella luce: che diventa la sostanza vera dell'immagine, ciò che propriamente la costituisce nella sua dimensione virtuale. Il persistente richiamo ad un ordine geometrico delle forme risulta privato d'ogni tentazione metafisica, liberato di quella sorta di purismo, linguistico ed ontologico, che prima restringeva le scelte espressive dell'artista entro le possibilità combinatorie di alcune figure geometriche regolari, elette a modelli dell'essere e della coscienza, dell'arte e del mondo d'esperienze cui questa rimanda.
Delle figure geometriche non rimane sulla tela che una traccia, un'impronta nella luce, incerta tra la realtà e l'illusione. I triangoli, che nei "Giardini del Silenzio" si serravano a schiera, staccandosi immobili sul fondo bianco, ora appaiono distribuiti in uno schema compositivo arioso e disteso, scandito per larghe pause che danno respiro al lento e continuo propagarsi della luce. Anche se lo spazio s'è come aperto, spalancandosi frontalmente alla vista, non ne deriva un suo azzeramento sul piano di proiezione, ma al contrario un recupero di profondità, di distanze vibranti ed impalpabili evocate per scarti minimi di luce tra una superfìcie e l'altra, misurate quasi per gradienti di trasparenza. È necessario sottolineare come nel momento in cui gli elementi strutturali dell'immagine risultano alleggeriti e diradati, spinti talvolta fino al limite della rarefazione percettiva, Di Ruggiero riattiva la dimensione virtuale della rappresentazione, utilizzando con grande perizia ed acuta intelligenza le possibilità illusive dei mezzi e dei materiali adoperati.
La stessa tridimensionalità degli oggetti che sporgono dalla tela non è rivolta ad ottenere un effetto di brusca emergenza fisica o di sconfinamento dell'opera nell'ambiente esterno. Le superfici di quegli oggetti mutano la direzione e l'intensità della luce, la spingono in avanti o la attraggono in zone velate d'ombra, ma proprio dalla luce sono poi riconsegnate allo spazio dell'immagine.
Quando Di Ruggiero lascia in vista il margine appena scollato d'una tela o mette un piccolo telaio tra gli oggetti d'una sua composizione, richiamando così l'attenzione sui supporti fisici del quadro, quando fa trasparire nei campi di luce i segni della sua trascorsa stagione astratta, si è tentati di pensare che l'artista napoletano, con quest'ultima serie di opere, si sia attestato nell'area - lucidamente indagata da Filiberto Menna nella sua "Linea analitica dell'arte moderna" - che dall'astrazione inclina verso l'arte concettuale. E, d'altronde, quella rarefazione percettiva cui prima s'accennava non ripete forse il percorso, da Menna appunto descritto, che dalla "Grande croce bianca su grigio" di Malevich conduce alla "percezione liminale" di Ad Reinhardt?
In realtà, la tenue increspatura dell'orlo della tela, il suo dolce rilevarsi sulla superfìcie sottostante, individua nella contestualità della visione, prima ancora che un particolare procedimento di manipolazione dell'oggetto-quadro, la linea di sutura tra due piani di luce. Essa si situa, cioè, innanzitutto al livello degli elementi costitutivi dell'immagine virtuale. Dal quale solo conuno scarto di intenzionalità conoscitiva possiamo farla regredire a quello delle caratteristiche materiali dell'opera. Perciò la riproduzione in miniatura del telaio - il quadro nel quadro - è la dimostrazione che Di Ruggiero non intende far coincidere, annullandolo, il momento rappresentativo con l'esibizione della struttura fisica dell'opera, ne vuole rifare il verso alle presunte tautologie dell'arte concettuale. Infatti, mettendo il quadro nel quadro, proprio allo stesso modo con cui "stanno dentro" tutti gli altri elementi della rappresentazione, egli riapre le forbici della coppia significante-significato, quasi a mostrare che anche quando l'arte parla dell'arte non per questo rinuncia alla sua funzione referenziale. Così, ancora: utilizzando una scala luminosa estremamente ristretta, articolata per differenze percettive minime, liminali, appunto, Di Ruggiero si muove nella direzione opposta a quella che punta alla eliminazione dal quadro d'ogni residua rappresentatività.
Il suo è piuttosto un sensibilissimo ed accorto sondaggio degli infiniti valori intermedi tra i due estremi della scala. Movendosi tra questi, egli riesce a creare immagini che nascono e respirano nella luce. E sono, per la loro limpida ma complessa fenomenologia, per l'alone di silenzioso stupore che le circonda, metafore dell'inesauribile e sempre nuovo rivelarsi della vita attraverso l'esperienza dei sensi: un'alba degli occhi aperti per la prima volta sul mondo.
L'incontro con il "ciclo della luce" di Di Ruggiero suscita il ricordo di altre immagini,dipinte dall'artista nella seconda metà degli anni Cinquanta, con accenti che ancora oggi risuonano tra i più intensi e toccanti, e non solo limitatamente all'ambiente napoletano. Pochi s'avvidero allora della forza che accendeva la pittura del giovane Di Ruggiero e la faceva esplodere in scaglie incandescenti di colore. Ancor meno furono quelli che intesero come egli facesse avanzare i termini della situazione artistica, in un momento particolarmente vivace e ricco di proposte alternative, con una sua personale versione dell'Informale che non si risolveva in interventi sulla pelle soltanto della pittura.
Al suo avvio, la ricerca di Di Ruggiero s'alimentò forse dei frutti già maturi dell'"ultimo naturalismo" padano. Ma in breve volgere di tempo gli esiti ulteriori si rivelarono ben diversi; lontani, ad esempio, sia dal denso e terragno impasto di Merlotti sia dal furioso, parossistico "espressionismo solare" che Michel Tapiè, nel 1956, scorgeva nei dipinti di Moreni. E proprio rilevando tale diversità, Oreste Ferrari, qualche anno dopo, individuerà la dimensione dell'immagine di Di Ruggiero in "quella, attiva e tutta liberata d'ogni sottintesa nozione, del gesto che insistendo su di essa l'aggredisce e la lacera in crepitanti brandelli di materia". Ma non era un'adesione alla poetica del "gesto". Questa ebbe indubbiamente una parte decisiva nel fugare ogni residua tentazione di tenere in piedi l'impalcatura neocubista, messa su nel periodo dell'apprendistato all'Accademia, alla scuola di Emilio Notte; questa aiutò anche l'artista a rimettere in discussione i nessi di una visione troppo ordinata, dove le superfici si connettevano tra di loro secondo le regole di un severo ed asciutto tonalismo. Ma il "gesto" - e si potrà parlare, sulla scorta delle notazioni di Ferrari, della spinta venuta in tal senso da Pollock, da De Kooning e da Guston non fu che l'elemento catalizzatore, che accelerò un processo già in corso, dove il reattivo principale era la luce. La quale, infatti, già da prima aveva aperto varchi profondi nel tessuto plastico della forma e prodotto ferite mai più rimarginate. Per questa fase, che non può dirsi in alcun modo "gestuale", ma che è di straordinario slancio luministico, si veda la "Crocefissione" del 1957, che s'erge come un grandioso e corrusco lacerto, sfasciato e corroso dalla luce, eppure ancora mirabilmente
palpitante di vita nella materia bruciata dai bruni più spessi e fondi, e sfibrata nei bianchi grondanti dolcissimi umori cromatici. Il rapporto con l'Informale, d'altronde, fu vissuto da Di Ruggiero in maniera fortemente problematica, con una tensione espressiva che derivava dal fatto che egli, rifiutandosi di declinare l'imminenza percettiva, la prossimità senza respiro dell'opera informale, in eleganze materiche o di segno, tentava di riorganizzarla in una nuova spazialità, (non più tenuta ferma dalle briglie della prospettiva o di ogni altro preordinato sistema di rappresentazione) e di ricondurre l'evento pittorico sotto il segno della "visione". E sarà ancora la luce che, dopo aver lacerato l'involucro plastico della forma, si assumerà un ruolo letteralmente "portante", invadendo lo spazio e mantenendo a galla i relitti della forma.
Si potrà capire, dunque, per quali vie Di Ruggiero potesse continuare a insistere su una tematica dichiaratamente "figurativa", almeno sino alla svolta del decennio successivo. Tale "figuratività" - che, essendo stata ricondotta, come s'è visto, ad una dimensione spaziale estremamente fluida e affidata soprattutto alla tenuta del medium luminoso, potrebbe definirsi neoimpressionistica - fu perseguita da Di Ruggiero in piena autonomia tanto da quella del "Gruppo 58", di derivazione tutta "nucleare", quanto da quella, maturata in ambito realistico, che proponeva di far ponte dall'espressionismo alla tradizione naturalistica seicentesca. Nella situazione artistica napoletana, in quegli anni di animoso dibattito culturale, la ricerca di Di Ruggiero apportava un contributo di chiarezza, anche per i suoi risvolti implicitamente polemici. Se, infatti, nei confronti dei coetanei del "Guppo 58" lo insospettiva quell'attingere a piene mani e troppo disinvoltamente nei depositi del surrealismo e del folklore locale, neppure lo convinceva la proposta di chi, una volta avviato il processo di rifusione a caldo della sostanza figurativa dell'immagine, pensava di poter estrarre dal crogiuolo infocato dell'abstract expressionism il filo continuo di una tradizione e con questo tentare rischiose operazioni di innesto. Quale valore, poi, potesse assumere un approccio all'Informale, sollecitato da autentiche emozioni individuali, da parte di un artista dell'ultima generazione, potrà intendersi rileggendo queste parole di Francesco Arcangeli: «negli anni che vanno dall'ultimo conflitto fino all'attenuarsi della "guerra fredda", i campioni più legittimi di un realismo moderno che sia risposta in profondità al tempo, furono i campioni più grandi dell’Informel, che essi soli di quel tempo seppero tradurre veramente la perdutezza, la ferocia, l'umano smarrimento». Se è vero, cioè, che l'Informale, non dico nell'interezza del suo variato e diseguale panorama, ma per quel tratto più aspro e accidentato dove si congiungono le strade, pur così diverse, di Wols, di Pollock e di De Kooning, seppe stringere da vicino le ragioni profonde dell'arte e della vita ad un punto oltre il quale non sarebbero andate neppure le successive esperienze oggettuali e comportamentali - non meraviglierà che anche a Napoli l'ondata dell'Informale potesse produrre qualche effetto benefico, favorendo una più attenta sensibilità ai problemi di fondo dell'esistenza, nei suoi nodi storici ed individuali, cui avevano fatto ombra, negli anni precedenti, sia una progettualità astrattamente razionalistica, sia un contenutismo ideologico troppo spesso ingenuo e schematico. Il primo beneficio prodotto fu di ordine "igienico", poiché fu sgombrato il terreno dai resti delle contrapposte barricate dell'astrattismo e del neorealismo. Ma il più importante si vide nelle opere degli artisti della generazione da poco giunta sul campo: forse perché la crisi degli schieramenti - e intendo proprio quelli più direttamente connessi alla cosiddetta "politica dei blocchi" - non li coinvolgeva in maniera così radicale, come invece accadeva alla generazione precedente; forse perché, al verificarsi di un'apertura internazionale di proporzioni così vaste e di tempi così rapidi quali mai s'erano dati nella storia recente dell'arte, li avvantaggiava una capacità ancora integra di recupero. Ma è certo che da Pisani e da Waschimps, da Alfano e da Di Ruggiero prese avvio, facendo perno su di una comune ma differenziata esperienza informale, una stagione nuova della pittura a Napoli.
Di questa stagione Di Ruggiero è stato un silenzioso e autentico protagonista. Egli s'addentrò in una avventurosa ricerca di luce, se così si può dire, in cui con i frammenti della figurazione brucerà l'idea stessa della pittura. Per rinascere a distanza di anni, come al compiersi di un ciclo.


Vitaliano Corbi
Napoli, 1981


 

Enrico Crispolti

GEOMETRIA E RICERCA : Carmine Di Ruggiero

I dipinti più recenti di Carmine Di Ruggiero sono ad evidenza fondati su strutture nate da una iterazione modulare : ripetono infatti a schiera il triangolo equilatero come matrice formale costante, e lo ripropongono in posizioni diverse, in direttrici comunque piuttosto ordinate, ortogonali o diagonali, a schiere appunto, più o meno fitte. E le strutture di ciascun dipinto nascono da tali iterazioni del triangolo/modulo.Le composizioni strutturali sono diverse, asimmetriche, secondo cioè una serialità irregolare e libera, che si equilibra/squilibra infine nel gioco delle presenze cromatiche, che sono di campiture piane e compatte di ciascun triangolo/modulo, in giochi di dissonanze e corrispondenze.

Ad evidenza dunque in questi dipinti recenti di Di Ruggiero la serialità modulare (del triangolo appunto) è impiegata in senso analogico estraneo ad una nozione di forma pura assoluta; nel senso cioè di una deliberata sottrazione da una dimensione concettuale della forma stessa, per usarla invece appunto in un pronunciato impegno analogico (il che non vuol dire non rispetto dei valori formali, ma certo conclusione su una insufficienza semantica del loro valore puro, tautologicamente.

L'operazione non è certo nuova nella storia della pittura astratta : e basti l'esempio aulico e clamoroso del Boogie Woogie newyorkese di Mondrian, e dei dipinti che gli sono intorno, per ricordare come — e al livello più alto e delibato di strutturazione formale — la forma pura possa farsi esponente di un risalto emotivo in relazione strettamente ad una corrispondenza ambientale. E d'altra parte a suffragare una tale lettura dei dipinti più recenti di Carmine Di Ruggiero giocati sulla modularità triangolare sta tutta la sua precedente vicenda di pittore (e persino episodicamente di scultore) : voglio riferirmi anzitutto è chiaro a quella sua partenza informale dello scorcio degli anni Cinquanta.

Evidentemente il rapporto analogico che presiede semanticamente all'impiego modulare della forma e all'intreccio di corrispondenze e contrasti cromatici in questi dipinti, si pone con una situazione ambientale operativa ed esistenziale molto precisa : quella alla quale Di Ruggiero da sempre appartiene, la situazione napoletana. Il rapporto analogico è dunque evidentemente con una vivacità ambientale napoletana (e mi si passi una terminologia così sommaria, ma non credo poi del tutto inefficace).

In questo senso anche il lavoro recente di Di Ruggiero è estraneo a quell'operazione di fiducia avveniristica di fondazione culturale (nel possibile aggancio con una realtà industriale da contrapporre alla condizione esistenziale di Napoli) che fu nella prima metà degli anni Cinquanta del gruppo napoletano « Arte Concreta ». Proprio perché Di Ruggiero opera appunto sulla forma in modi legati ad un fenomenologismo analogico, nel segno dunque della corrispondenza ad una effettualità contingente, locale (che invece l'operazione napoletana « arte concreta » attenuava in intenzione di dialogo internazionalistico prioritario).Ma in questo modo Di Ruggiero rinnova la propria professione di volontà di assumersi interamente la responsabilità di un rapporto ambientale, che è di fatto sociologico. Egli piega dunque la forma pura a questa funzione di analogia semantica d'una propria realtà.

Così quelle che ci propone non sono tanto forme, distaccate forme « pure » appunto ; quanto piuttosto sono segni, segnali — se si vuole — che Di Ruggiero dispone e direi persino mischia secondo una vivacità fenomenologica di riscontro analogico ambientale: una vivacità che urge, che si fa presente, e che indubbiamente il pittore sente appartenere al proprio mondo, corrispondere alla propria natura, inerire nella propria dimensione d'esistenza. E il negarlo sarebbe falso e arbitrario. Più sensato tentarne invece in termini culturali problematicamente avanzati una propria interpretazione, tentare una corrispondenza che vale in fondo una possibilità in certo modo anche di riscatto.

C'è in fondo un atto di umiltà (che è responsabilità, non certo dimissione culturale) da parte di Di Ruggiero nel chiarirsi i modi di un lavoro semplice e pulito, e che si imponga come lavoro anzitutto sulla forma e con la forma, e che intenda quindi essere un modo di corrispondere da uomo di cultura aggiornato sui testi internazionali ad una contingenza che gli è tipica, che si è assunto come dimensione esistenziale, appunto.

E la chiarezza e validità dei risultati, che sono propri e non imitano alcun modello più o meno aulico, danno ragione alla bontà ed autenticità di questa operazione, indubbiamente anche coraggiosa.

Enrico Crispolti

Marzo, '74


 

Gillo Dorfles

L' OGGETTUALIZZAZIONE DELL'IMMAGINE

               L' oggettualizzazione dell'immagine: questa l'operazione fondamentale nella creazione artistica di Di Ruggiero.
La oggettualizzazione, come "cosificazione" (come Verdinglichung), che rende "cose" gli eventi e i momenti e che ha trovato in molti artisti dei nostri giorni: da Castellani a Bonalumi, da King a Tucker, da Tony Smith a Stella, una precisa formulazione. Ma, nel caso di Di Ruggiero, il farsi oggetto dell'immagine non rientra nell'ambito delle Primary Structures statunitensi, gigantesche operazioni di "riempimento spaziale" che solo una civiltà tecnocratica come quella d'oltreoceano poteva ideare.
Per Di Ruggiero, invece, l'oggettualizzazione è ancora - per sua fortuna - di carattere personale, studiata e realizzata attraverso sottili giochi di intarsi del legno che acquista così la purezza dell'oggetto di serie senza però perdere la levità della sua originaria natura organica.
L'incontro tra l'organicità delle forme (aiutate dall'impiego di un materiale "naturale" come il legno) e la fredda pulizia dei materiali di copertura (vernici acriliche, colori industriali) è alla base dell'efficacia espressiva di queste opere. Ma, mentre nei rilievi degli anni scorsi, le singole forme apparivano ancora limitate dalla artificiosa chiusura della cornice o dalla loro composizione esclusivamente bidimensionale, nelle opere dell'ultimo anno il respiro si è fatto molto più largo: le vaste superfici - il più delle volte candide - si sono espanse ad abbracciare vaste stesure spaziali, e - pur rimanendo, nella loro sintassi costruttiva, legate alla loro matrice bidimensionale - si sono venute sviluppando anche volumetricamente così da assumere le dimensioni e le prerogative di vere e proprie sculture.

Alcune di queste, come i "Grandi dischi sospesi", il "Tutto bianco" del '69 e la "Grande forma" pure del '69, costituiscono, ci sembra, una riprova di come, al giorno d'oggi, non esista un confine apprezzabile tra pittura e scultura, e come, l'incidenza dell'attività manuale possa ancora risultare determinante per la realizzazione di quelle opere plastiche capaci di sfuggire all'asservimento ad una mera componente tecnologica che troppo spesso coarta la produzione artistica della nostra civiltà.

Gillo Dorfles
Dal Catalogo della Mostra alla Galleria Cenobio Visualità, Milano, 1969


 

Luigi Paolo Finizio

NOTE SULLA PITTURA DI CARMINE DI RUGGIERO

[...] Rispetto pure a vicine esperienze di artisti più anziani a Napoli (da Barisani a Spinosa) e in campo nazionale, l' avvio è del tutto deflagrante nell'autenticità di un confronto e di una scelta che la sua generazione ha sentito attuali e non trascurabili.
L'informale in quegli anni a cavallo del nuovo decennio, gli anni Sessanta, costituisce ancora una soglia e un terreno da varcare e percorrere per stare risolutamente nella pittura, nel corpo della pittura. Verranno poi le stagioni dell'estroversione più spinta dell'oltre la pittura, ma allora a Di Ruggiero, ad altri come lui (non solo a Napoli), la pratica dell'informale segnava il campo d'immagine più risoluto. Enfaticamente nel suo campo d'immagine l'atto compositivo si stringeva al dipingere stesso, all'azione che trova, che pondera direttamente tracciando, sedimentando colore e materia nel campo pittorico.
Subito Di Ruggiero si misura con le calamitanti virtualità che il gesto ha dischiuso alla veloce ideazione visiva della poetica informale.
La sua indole compositiva, la lezione cubo-futurista che come un reticolo di coscienza filtrano il suo tuffo nell'incondizionato, nel dissolvimento presto orientano, coagulano, assestano il campo d'immagine.
Come ho già avuto modo di dire, appare leggibile nelle opere che segnano l'accesso di Di Ruggiero all'informale che tale poetica si apre ai suoi intenti espressivi in un tragitto di immersione sensitiva, senza margini di distacco mentale. Ma devo ora aggiungere che tale immersione trascina i suoi termini di linguaggio, li aggancia alla incondizionata virtualità della poetica informale. Per il modo insomma con cui il suo sentire e il suo formativo reticolo di coscienza misura e conduce il gesto informale, la sua pittura ne sonda e delinea le potenzialità di costruzione, di assestamento attraverso i campi e la materia del colore.
La caduta dell'oggetto, la dissoluzione di fisionomie si danno oltre la grammatica delle impalcature cubiste, delle dinamiche plastico-futuriste. Esse s'interiorizzano, si pongono in filigrana per darsi una nuova consistenza visibile tutta integrale al gesto pittorico. Questa sensibile vincolazione, questa immanente suscitazione d'immagine, costituiscono in fondo la sostanza visibile della sua identificazione tra percezione e realtà. Da questo radicale avvio per Di Ruggiero non si daranno più alternative tra presunti statuti di realtà e non meno presumibili codici espressivi, ma ricerca sì, e inarrestabile, di opzioni espressive. Ricerca di trasmettere nel linguaggio, libero da ogni mediazione che non sia del linguaggio stesso, i propri processi d'esperienza con la realtà.

3

Lungo l'intensa esperienza di poetica informale, allo scorcio degli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta, entro un panorama di cultura artistica certo più sensibile e attento di quello attuale, i riconoscimenti alla pittura di Di Ruggiero furono presto lusinghieri. La critica più avvertita delle ricerche artistiche contemporanee e la presenza nelle rassegne espositive più importanti, da Spoleto alla VII Quadriennale, dal "Michetti" alla XXXII Biennale di Venezia, gli hanno assicurato un posto di primo piano, consegnandolo con rilievo a una stagione artistica che prima o poi dovrà essere opportunamente inquadrata storicamente sia sul territorio napoletano che su quello nazionale.
Oltre questa fase creativa di poetica informale Di Ruggiero mostra spingere fuori il suo reticolo di coscienza, la sua ereditata grammatica d'immagine. Proprio nella Libreria Guida nel 1967 egli allestì una prima rassegna di questa sua svolta espressiva: una vera e propria estroversione del gesto compositivo. Come scrisse Filiberto Menna nel presentarlo in catalogo, l'opera di Di Ruggiero diventa "oggetto tra altri oggetti della nostra scena quotidiana". L'assetto d'immagine ha assunto ora lo spessore aggettante del manufatto, il suo ordito si snoda su movenze vagamente organiche o si delinea su assetti rigorosi di piani geometrici.
Il piano solido di un riquadro su tavola fa ancora da campo di visione ma tutto si tiene nell'assoluto del bianco di smalto che quando non invade per intero il campo d'immagine si mostra attraversato da nette, oggettivate campiture di colori acrilici al fluoro. Di Ruggiero ha quindi decisamente portato fuori dalla vincolazione soggettiva il suo fare arte. Nella temperie degli anni Sessanta e Settanta tendenzialmente volta all'oggettualità dell'opera, allo scavalcamento o all'analisi più rastremata del campo pittorico (pittura-pittura), l'artista opera con una chiara dizione non smemorata dei propri interiorizzati criteri espressivi.

All' oggetto ansioso" (Rosenberg), all'oggetto ora ironico oradrammatico, specialmente in auge a Napoli, egli appare corrispondere con una forte inserzione creativa dentro la memoria storica dell'astrattismo. Rinverdendone cioè il filone di continuità che passando per le vie del cosiddetto "concretismo", in cui cadono le convenzionali distinzioni di bidimensione e tridimensione, di pittura e scultura, si arriva alle coinvolgenze dell'opera ambiente.

Quando Di Ruggiero dal 1968 cominciò a demarcare il piano, il riquadro di visione realizzando con legno e plastica delle installazioni che s'impongono nello spazio di una galleria o nelle strade della città, come nella tentacolare e grifagna "La grande forma" posizionata a piazza Trieste e Trento per il "Natale a Napoli" del 1970, ancora Menna aveva commentato il suo lavoro come "un grado zero della pittura, per poi abbandonare la parete e invadere lo spazio ambientale".

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II mio diretto incontro con l'opera di Di Ruggiero si svolge durante una ulteriore fase espressiva che muove dal 1974, qualche anno dopo, dal 1981, siamo anche colleghi d'insegnamento nell'Accademia di Belle Arti a Napoli. Un nuovo corso espressivo che avvia pure dal praticato "grado zero della pittura" al momento attuale del suo fare arte un tornante, una riconversione dapprima come di ricognizione e ristrutturazione di termini primari nel campo visivo della pittura per poi riconsegnarsi alla vincolazione soggettiva, al gesto che rigenera e riassesta il corpo pittorico.

Nel 1976 con Barisani, De Tora, Piccini, Tatafiore,Testa e Trapani, Di Ruggiero da vita al napoletano gruppo "Geometria e Ricerca".
Un sodalizio affiatato (oggi non sono più in vita Piccini, Tatafìore e Testa) che all'intesa di ricerca espressiva ha unito un intenso lavoro di autopromozione con mostre e pubblicazioni. Edito dall'IGEI di Napoli esce nel 1979 il mio "L'immaginario geometrico" dedicato all'attività poetica del gruppo.
Alla vita del gruppo durata sino al 1980 è stata dedicata nel 1996 una retrospettiva curata da Mariantonietta Petrusa Picone e allestita presso l'Istituto Suor Orsola Benincasa. Il catalogo a corredo della rassegna oltre al testo della curatrice porta quello di Angelo Trimarco che con la discussione svoltasi la sera d'apertura (i partecipanti alla discussione erano Crispolti, Dorfles, Finizio, Picene e Trimarco) hanno fornito un nuovo contributo di lettura sull'opera degli artisti del gruppo. Un evento certo di rilievo per Napoli se non altro perché è stata la prima volta che a livello pubblico nella cultura artistica napoletana si è tornati a riflettere in tempi ravvicinati su di un fatto contemporaneo della propria vita artistica.

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Attraverso il quadro storico che ho delineato nel mio "L'immaginario geometrico" a partire dagli anni Cinquanta quando nasce a Napoli il Gruppo Arte Concreta (Barisani, De Fusco, Tatafiore e Venditti) sino alla metà e oltre degli anni Settanta con il costituirsi di "Geometria e Ricerca", proprio rispetto alla copresenza operante di Barisani e Tatafiore, l'opera di Di Ruggiero assume un ruolo centrale e di cerniera nel richiamo consapevole che a quella conterranea esperienza di arte "concreta" gli altri più giovani componenti (De Tora, Piccini, Testa e Trapani) mettevano di fatto nella intrapresa intesa di gruppo.
Alle opere di intervento ambientale, di intrusione sensitiva nellospazio, Di Ruggiero fa seguire nel corso dell'esperienza di gruppo una più contenuta estroversione del campo d'immagine. Ritornato decisamente al piano di visione, questo recupera l'indifferente status "concretista" tra bidimensione e tridimensione per ergersi a tavola di rappresentazione. Simili a prospetti architettonici o sorta timpani queste tavole modulate da gradinati piani quadrangolari o triangolari mostrano come un fregio campante la successione e il sovrapporsi di triangoli cromatici. L'esito è tutto ricondotto alla monumentalità della visione, all'esultanza del colore nei suoi termini di accensione mentale e pulsazione percettiva. Un ritomo ai fasti della natura ma in un'estrema riduzione Ulteriore e mentale.
L'orizzonte è quello solare di Napoli, come indica il titolo di una prima serie di questi lavori: "Tavole napoletane".
La scelta del triangolo non ha scopi di costruzione geometrica ma di configurazione dinamica (tende più alla freccia, al vettore), di pattem idoneo a temperare il flusso emotivo, l'eccitazione percettiva, lo scorrere corpuscolare di luci e ombre. Emblema o vessillo visivo in grado di suggerire nelle sue trame iridate e mobili una metafora visiva di forze vitali, di transiti e accadimenti dell'esistenza. Le matrici personali e la lezione formativa degli assetti cubisti e dei dinamismi futuristi paiono ora riafferrare con acuità di visione e sottile rarefazione, così come il gesto pittorico ha assunto una estrema cadenza inferiore, direi di sonorità cromatica.
Le ultime realizzazioni di questo ciclo orientano la metafora visiva dal cimento del mondo estemo alle tacite, raccolte, silenziose perturbazioni della vita inferiore, del segreto ascoltarsi e gridare verso la vita. Di Ruggiero ha pure intitolato questi lavori "il giardino del silenzio".
Certamente anche per Di Ruggiero come per altri, nel giro degli anni Ottanta e sino ai nostri anni, si fa avanti il pungolo del ritorno alla pittura. È in tale indirizzo che organizzo nel 1983 la mostra "Plexus '83 " a Napoli. Tra le opere esposte le sue forniscono una significativa rappresentazione di tale sentita urgenza che non poco si alimenterà di rigenerati e rivissuti attingimenti all'informale.
L'anno successivo scrivendo per il catalogo della sua mostra all'Accademia Fontano di Napoli, davo forte rilievo a un motivo dominante la sua ultima produzione risolutamente tornata alla pittura.
Il motivo cioè della natura. Al cospetto della natura si dava insomma, dicevo nel mio testo, un "cominciamento o ricominciamento" che per Di Ruggiero segnava la condizione del fare pittura e che le opere di questi anni Novanta dichiarano come continuità del suo destino di pittore dei suoi avvii e dei suoi proseguimenti.

Luigi Paolo Finizio

Incontro con Carmine Di Ruggiero
alla Libreria Guida, Napoli, 21 febbraio 1997