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Mer, Dic

L’arte dedicata ad una vita

La grande pittura poggia sulle grandi idee. Le grandi idee hanno questo effetto: o di stimolare lo spirito del pittore oppure di soffocarlo.

L’idea ferace di Raffaele Canoro è l’osservazione del mondo.

Un lungo pellegrinaggio verso un luogo sacro: il mondo del silenzio, quello della meditazione, della pratica del dipingere.

Il suo sguardo si veste di indagine scientifica rimanendo su un corpo integro, non corrotto; schivando con cura il compiacente naturalismo, l’impassibile iperrealismo ed il limbo dell’avanguardia.

Nell’opulenza della civiltà occidentale, dove c’è sempre meno spazio, meno ossigeno, meno tempo; in questa cultura dell’urgenza del fulmineo, già usato, del fare senza pensare; dove l’arte diventa una splendida superfluità; il nostro artista appare come un dinosauro sopravvissuto, con un pesantissimo bagaglio: il dolore della conoscenza.

Nel veloce passaggio su questa pietra che gira nello spazio, in questo dissolversi, egli rifugge dal segno effimero, casuale, immediato, sperimentale, dall’ atto gratuito; celebrando, dopo una gestazione lunga, il segno insaziabile dei suoi umani paesaggi.

Avanzo in religioso silenzio in questi ambienti disadorni. E’ una cattedrale o una cripta? Un luogo sacro oppure un luogo dimenticato? Le sue opere sono coperte , rivolte verso le pareti, in quest’officina dei sensi, accorpate l’una accanto all’altra; come in castigo. Il tempo storico è questo, dove c’è stata una sostituzione dei verbi in cui la sintassi dell’estetica è stata volutamente sovvertita. La bellezza trasfigurata in trasgressione. L’arte è morta e questi sono i cadaveri e le vittime.

Dal suo “Poema metropolitano” recupero tracce, seppur disomogenee, dove si compongono pensieri e sensazioni quasi come in caduta libera: turbati , labirintici, sospesi; è come passare in una tempesta in cui immagini oniriche danno voce alla sua personale visione di un mondo reale in cui domina la barbarie.

Dalle origini dell’uomo il sentimento spietato della sete di possesso in nome non sempre della sopravvivenza, è stato il filo rosso che ha permesso atroci ingiustizie, rendendo la Terra molto meno ospitale di quanto si ostenti far credere. La feroce, incessante, spregiudicata contraddizione tra umano e disumano, intrappolata nello stesso genere vivente, lo porta a credere che l’essere umano non possa appartenere a questo pianeta, ma sia il frutto di un esperimento, portato qui da un essere diverso.

Nessuno, come l’uomo stesso, ha mai messo in discussione l’ecosistema, deviando fiumi, svuotando montagne, inquinando mari. Irrimediabilmente si è perso il rapporto con la natura in questo avanzare inesorabile di asfalto e cemento. Stiamo precipitando in un abisso insanabile e il tempo che ci è concesso in questa parabola è solo un misero intervallo che non potrà darci il significato completo ai tanti interrogativi sulla nostra presenza.
Non c’è languore e pietà neppure nella nascita: una condanna alla pena capitale, ogni giorno procrastinata, sospesa in un tormento.
Non è pessimismo gratuito. Piuttosto un anelare alla verità dove quasi tutto è ammantato di luride ipocrisie. C’è chi è fiera feroce e chi debole preda; tutti colpevoli e complici: inermi, compiacenti o violenti.
Una possibilità di riscatto è ravvisata nella conoscenza. Conoscenza come cultura che forgia l’intelligenza, per sfuggire alle trappole dei dogmi delle fedi e da quelle delle mode che plagiano l’identità.

La pittura di Raffaele Canoro trae una grande motivazione dalla continua denuncia contro la lussuria, l’edonismo, l’effimero: tentazioni sempre in agguato nella società, per prosciugarci la volontà, per svuotarci i cervelli, per comandare i nostri pensieri, le nostre scelte, i nostri atteggiamenti.

Il viaggio dell’umano e disumano della pittura di Canoro ricorda quello oltremondano di Dante. Mentre la Commedia dantesca si avvale delle descrizioni delle anime dopo la morte, in Canoro ci sono personaggi reali che esprimono le loro condizioni esistenziali. Lui, l’artista, non passa incolume come Virgilio nei gironi danteschi come semplice spettatore, ma partecipa, subisce, si sporca, si ferisce di tutti i delitti, malesseri e deformazioni. E’ sempre protagonista delle passioni erranti delle sue tele. Nel suo cammino, in questo viaggio dunque mondano, non ci sono castighi eterni, pene catartiche e beatitudini spirituali nell’ordine suggerito dalla Divina Commedia. Non ci sono su questa terra e non ci saranno dopo.

Le opere di Canoro rimandano a quella dantesca proprio nel modo in cui l’artista vigila come osservatore attento, come cronista e testimone del suo tempo, evidenziandone vizi e virtù. Non c’è tripartizione del destino: dannati, espianti e beati. Già qui, nell’unico mondo dei vivi, queste indistintamente si confondono mischiandosi.

Nella visione di Canoro tutto è capovolto: i meritevoli sono quelli senza qualità e gli svantaggi e ostacoli spettano a chi è dotato di uno spirito puro, autenticamente impegnato a dare un contributo sano. Seppur tragica ed inaccettabile, solo la morte potrà essere salvifica dalle pene e dagli affanni; solo la morte porrà fine ad ogni forma di degenerazione. Non ci sarà né premio né pena dopo di essa. Solo il silenzio in cui la natura si riprenderà quello che le è stato usurpato. In quest’evidente visione evoluzionistica, Canoro vede l’uomo nella sua irreversibile fase discendente.

Un grande contributo critico che ha dato voce alla pittura di Raffaele Canoro fu Paolo Ricci: un intellettuale totale, che in oltre cinquant’anni del Novecento a cavallo della seconda guerra, è stato un punto di fondamentale importanza per Napoli, e seppe intuire nel giovane artista gli esordi di un’arte tormentata e complessa.

Paolo Ricci, negli anni settanta, notò come Raffaele Canoro desse l’esempio di come si potesse operare sul piano dell’arte e della cultura figurativa percorrendo una strada del tutto autonoma, senza lasciarsi incasellare ed irreggimentare in schemi e definizioni mercantili, di scuole o di indirizzi estetici che molto spesso esistono soltanto nella mente dei sedicenti critici che li hanno inventati.
In un articolo sull’ Unità del 1976, Paolo Ricci riguardo ad una sua mostra all’ “Incontro”, scriveva: << […] disegni che costituicono un racconto allucinante e crudele sulla condizione dell’uomo in una società che lo condiziona con tutti i mezzi, lo riduce ad oggetto […] lo incarta come una merce e lo sottopone a sottili violenze >>.
Paolo Ricci aveva compreso profondamente il sogno di un artista che descriveva per immagini la condizione di chi lavora controcorrente. Sui suoi articoli coglie la disperazione, la rabbia di chi ha la coscienza di vivere in un ambiente culturale che, o si accontenta degli estetismi e dei narcisismi che tanto divertono la borghesia e i suoi rappresentanti o si adagia nella tradizione oleografica, ottocentesca napoletana.
Di quegli anni sono alcune opere dal titolo “Sotto al manifesto”, nate dal bisogno di contestare una certa realtà visiva urbana ereditata dalla cultura americana che iniziò a dilagare in Italia dal secondo dopoguerra: grandi manifesti pubblicitari ossessivi e minacciosi, ambigui e osceni. Di quegli anni è da ricordare la grande tela esposta in occasione della Quadriennale d’Arte (1975) al palazzo delle Esposizioni a Roma, “Monumento equestre” che alludendo ad atteggiamenti sessuali, è ancora una volta un’esplicita denuncia a quella pornografia consumistica che esaltava l’aggressività e ammiccava al voyeurismo.
L’immagine mercificata in funzione persuasiva ed alienante si sostituisce alla natura e alla cultura, indottrina eserciti di masse di consumatori che attraverso il subliminale assorbono passivamente i bombardamenti delle centrali pubblicitarie.

Paolo Ricci, per quanto sottolinei come i primi ad avvertire la prepotenza delle immagini pubblicitarie come un dato acquisito della vita urbana siano stati i Pop americani, chiarisce anche come la stessa operazione Pop, nonostante avesse una carica grottesca e dissacratoria, finisca per fare un gioco propagandistico proprio a vantaggio di quei prodotti elevati a simboli della civiltà consumistica che si volevano dissacrare. Infatti fu proprio lui ad evidenziare nella sua crudezza e verità assoluta come la pittura di Raffaele Canoro entri in contrasto con la pittura Pop distanziandosene sia dal lato formale che contenutistico. Il grande intuito e la profonda sensibilità di Ricci propone piuttosto un parallelismo di queste opere di Canoro con quelle dei murales messicani, specie riferendosi ai cicli di Siquieros e di Orozco che avevano la forza sanguigna della protesta popolare sicuramente più vicina al realismo, al processo analitico, alla denuncia appassionata e al messaggio politico del giovane pittore napoletano.

C’è un momento importante in cui avviene un cambiamento fondamentale che consolida il carattere inquisitivo della sua pittura. Intorno agli anni settanta c’è stata una vera e propria revisione coloristica in cui abbandona definitivamente quel senso della pittura popolare e quei colori primari che invadenti interferivano con l’essenza del suo linguaggio.

Già dalle opere “I barboni” in poi, il colore assoluto appare attutito. L’artista non si lascia più comandare e sopraffare dai gialli e dai rossi che ora riesce a modulare in una tavolozza dalle tonalità più severe e controllate offrendo una quantità maggiore di gradazioni all’osservatore. La sua pittura vien fuori come se fosse una laccatura cinese, cioè da numerose stratificazioni di materia che costruiscono l’immagine continuamente da progressivi riferimenti sottostanti.

Gli ultimi quindici anni segnano un’ulteriore evoluzione dell’ intensità espressiva e l’acuto impegno che trasuda dalla sua produzione artistica.

Europa, Europa! Finalmente ho trovato lavoro! (2000)

Consta di quattordici tele in cui narra la storia di un tipico personaggio del Sud, Gennaro Esposito, disoccupato endemico che, grazie alla nuova politica, trova finalmente lavoro in un negozio di giocattoli: gonfia palloncini.
Questo ciclo di opere nasce nel periodo precedente all’entrata in vigore della moneta unica e deriva da una chiara posizione, in difesa dei particolarismi e contro i globalismi, che sosteneva già negli anni in cui si iniziava appena ad accennare all’eventualità di un omologazione del sistema economico europeo.
La storia continua e Gennaro Esposito, mosso da grandi speranze, dopo intensi sforzi, rimane ben presto deluso, perché a causa dell’esplosione del pallone, perde il lavoro. E dunque il titolo delle opere cambia in: “Europa, Europa! Ho perso il lavoro!” E’ una storia grottesca, drammatica, cruda, pregnante di quell’amarezza tipica che è rimasta dai Borboni e che in questo modo si alimenta ancora una volta, a causa di una falsa promessa di benessere, di modernità, e progresso. Credo che senza esitazioni si possa considerare questo ciclo di opere come un pensiero profetico o un sogno premonitore del fallimento dell’Europa unita. Il palloncino, simbolo della precarietà economica, rappresenta l’illusione che ci hanno dato di poter migliorare la nostra condizione, ma la sua disintegrazione è anche il risveglio dal torpore di un sonno che ci scaraventa in una grave realtà.
Oggi, solo a distanza di dodici anni si ha il coraggio di ammettere che l’euro è stata un’idea orribile, un errore. E proprio oggi, a distanza di tanti anni, Raffaele Canoro, ritorna sul tema dell’Europa con nuove opere in cui appaiono personaggi in trasparenza attraverso quegli stessi palloncini. Oggi però c’è la sospensione, l’attesa di un’intera generazione senza prospettive per il futuro. L’inquietudine e il disagio hanno preso il posto di quello sforzo rappresentato nelle tele precedenti. L’umiliazione, il disorientamento e il vuoto è la nebulosa che li avvolge: dominante come un’inerzia disarmante.

Mortarelle l’acqua dell’aldilà (2003-2004)

Un tema urgente, sicuramente il più urgente che merita attenzione è quello dell’acqua. Un gesto quotidiano come quello di aprire un rubinetto ed aspettarsi che ne fuoriesca l’acqua, potrebbe ben presto non essere più così dato per ovvio. Essa, fonte di vita, semina morte. Le malattie legate all’acqua uccidono oltre due milioni di persone l’anno e soprattutto bambini, perché la gente è ignara di quel che contenga. Milioni di persone la usano imbottigliata perché pensano sia più sicura. In effetti non si conosce la composizione di quelle imbottigliate e non sempre la loro provenienza è garantita.

L’uomo che beve “l’acqua dell’aldilà” da una bottiglia di plastica è l’essere umano ed il suo ciclo idrologico già compromesso; dunque è già scheletro mentre tracannandola ne fuoriesce dalle sue ossa. Come il petrolio, diventata l’oro blu del XXI secolo, causa guerre e miseria. In sua assenza non abbiamo niente: non c’è vita, non c’è civiltà, non c’è società, non c’è economia.

Il nostro pianeta è un unico, immenso corpo vivente solo grazie ad essa che lo attraversa e circola incessantemente al suo interno. Anche noi, come la superficie terrestre, ne siamo fatti per il 70%. Ma l’acqua del pianeta è inquinata perché nessuno elimina da essa prodotti chimici industriali, pesticidi e farmaci. Tutto ciò sta alterando la chimica del nostro corpo. Una falsa soluzione a questo problema è stata la privatizzazione: in nome di interessi privati aziendali è stato deciso che l’acqua finisse in vendita sul libero mercato, commercializzata, trattata come qualsiasi merce.

“Mortarelle l’acqua dell’aldilà” è un efficace messaggio a questo impellente problema che riguarda l’intera umanità. L’acqua non è una risorsa da possedere, ma da vivere e non può essere privatizzata perché è un bene comune.

L’ultima trilogia di Canoro, “Luce, più luce!” (2011-2012), si ispira alle ultime parole del padre della psicanalisi. Dalla lettura di una monografia su Freud, Canoro ricorda di aver letto che qualcuno presente al suo capezzale udendo dalla voce stessa di Freud - << Luce, più luce! >> - interpretò quest’esigenza spalancando le tende della finestra della stanza, in cui stava spirando l’ultimo anelito di vita. Non era certo la luce del Sole che invocava in quel momento Freud, ma piuttosto un’illuminazione verso l’indagine estrema della psicanalisi e delle scienze connesse a quelle ricerche: così complesse e tanto ostacolate.

Dalle tele di Canoro nascono una serie di interpretazioni sulla contraddittorietà della civilizzazione. Lanterne illuminano sguardi accecati, che emergono dalle tenebre; volti sconcertati, stupiti, increduli; assaliti da un moto interiore escono dalle caverne dell’indolenza. In questa veglia funebre sulla cultura, in questa visione apocalittica in cui imperversa la lotta tra Eros e Thanatos c’è forse ancora una speranza… “ …la voce dell’intelletto è fioca, ma non trova pace finché non trova ascolto […] Questo è uno dei pochi punti su cui si può essere ottimisti per l’avvenire dell’umanità”. ( S. Freud )

“ Il disagio della civiltà “ è uno dei testi freudiani più complessi e controversi. In esso ritrovo casualmente pensieri equivalenti alle intuizioni e alle idee che hanno spinto Canoro a dipingere anche opere come “Crema di bellezza” (2005-2006). Qui c’è il delirio dell’edonismo, l’esasperazione della rincorsa affannosa all’eterna giovinezza, il primato dell’apparenza. L’industria della cosmesi e della chirurgia estetica ingannano le sembianze anche se i nostri organi interni non potranno mai sottrarsi alla vera età anagrafica. L’immagine speculare degli scheletri della morte beffarda che ci aspetta al varco, schernisce la nostra atroce ansia di perfezione e velleità d’immortalità.

Un richiamo ai temi del potere in “Ultima cena” (2006-2007) dove in un banchetto dell’ingordigia in cui si travalicano tutti i limiti della decenza e della morale, bambini neonati, simbolo dell’innocenza, come vittime sacrificali vengono portati sui vassoi della lascivia.

Ancora corpi in “Metamorfosi” (2009-2011). La peculiarità del suo linguaggio infatti è proprio nella teatralizzazione del corpo umano. Il corpo come mezzo, come ostacolo, come trappola, come virus; corpi che si stagliano come orizzonti, corpi come papiri da cui decodificare segni simbolici. Qui dunque ancora corpi, ma corpi di uomini senza un volto. Volti che si sciolgono e si trasformano come maschere di cera. Volti inespressivi, non hanno più sembianze, ma strane smorfie di cartone. L’uomo è in disfacimento e dal capo, alloggio del cervello, inizia a sgretolarsi, modificandosi. La maschera cinta di foglie è il nostro padre Dante o quello che ne rimane, visto che anch’egli è stato dissacrato. In trasparenza, sotto un involucro c’è l’uomo in penitenza che cerca di ritornare ad un grembo materno invocando un’altra possibilità di rinascere. E’ già troppo tardi ed ecco che il Dante di fango non ci protegge più, ma rimescola l’amarezza in una tazza. Si è venduto anche lui distorcendo la chiarezza delle parole e sta per offrirci da bere un’altra menzogna per avvelenarci lo spirito.

Sia in Freud che in Canoro seppur attraverso codici diversi, ma mai troppo distanti, le istituzioni della cultura umana vengono passate al vaglio della decifrazione analitica, che ci mostra il precario equilibrio delle relazioni tra individuo e civiltà continuamente messo a rischio dal conflitto inconscio interno all’individuo, dal sentimento di colpa che tale conflitto produce e dall’aggressività distruttiva che lo accompagna. Il paradosso della civiltà che, formatasi per assicurare agli uomini sicurezza e protezione li ha invece messi in condizione di distruggersi; di una cultura che lungi dallo strapparli alle feroci necessità della natura, ha consentito loro di infliggersi sofferenze enormi.

In “Vento artificiale” (2010-2011) oppure in “Ho diritto al futuro” (2009-2010) (quest’ultima un’iconografia pensata per sostenere una campagna contro le centrali nucleari), ancora vuole porre il nostro sguardo alla morte inscritta al cuore della nostra psiche e del senso della vita; della lotta inevitabile e dei costi della rinuncia, della colpa e dell’addomesticamento delle pulsioni, della sublimazione e dei suoi limiti, della precarietà – infine - di qualunque cultura e identità.

Dalle ultime pagine del “Poema metropolitano” di Raffaele Canoro

C’è un baratro, c’è un muro, c’è un silenzio.
… E questo correre su questi fili senza sapere dove si innestano. …e provi come da sempre, in questo viaggio sospeso. …e sotto di te si stende questo preciso mondo.
Un progetto dove nessuno ha chiesto: con caverne, acqua e paura. Onnivori, becchi aperti che aspettano la caduta. Una caduta venuta da lontano: più è alta, più è greve l’impatto.
Sentinelle disumane non hanno bisogno di specchi per guardare l’anima. Attendo paziente questo nuovo formarsi – e brusche intermittenze sembrano quasi spiegarti il volgersi verso la fine.
Il tavolo settorio della prossima anatomia già è stato preparato. Il silenzio non manca. L’iconografia sulfurea prima della paura. Spietato sentimento localizzato nelle budella e il canto della Compagnia dei Cappucciati si strozza nelle gole della montagna sacra. E perdo come sempre la mia quota viaggiando in discesa a capo dritto verso l’Inferno.
Prima visione. Si, sono proprio morto! Ma che ci vuole per apparire tale? Ma che ci vuole per essere assenti?
Forse non mi sono sgretolato abbastanza. Vorrei che si ripetesse. Semmai! I segmenti anatomizzati, vorrei che si vedessero d’accapo per non sbagliare: se no questo smembramento non è servito a niente, uno spettacolo dell’inutile per distratti ed impreparati osservatori.
No, è proprio vero, sono nella bacheca delle delizie: morto, disteso e sorridente.
Qualcuno ha detto che mi prenderanno il calco di cera per conservarlo in qualche museo.
L’accertamento è stato fatto. Il corpo rappresenta proprio la morte: gelido, indecente, con qualche accenno d’olezzo.
Non ho capito se sono di pietra e mi fonderò al tutto in queste miserie terrestri dove tutti hanno il diritto di dire qualcosa.
Non spero e non lo voglio che qualcuno spezzi una lancia sulla mia memoria – i convenevoli di prammatica, residui di verbi inutili ad esaltare le qualità che non possono conoscere.
Mentre risalgo la proposizione gratuita, un soffio da una caverna vicina mi porta sotto il naso l’aria marcescente che fuoriesce da qualche orifizio sfuggito al controllo dello sfintere.
Si, sono proprio morto. In questa posizione non riesco a muovere neanche un pelo.
Spero che qualche custode s’accorga dei miei occhi sbarrati, assetati d’infinito e mi abbassi con un gesto umano le saracinesche delle fosse orbitali; così mi proietterò nel buio del subumano per sgretolarmi sull’altare.
Mi accorgo adesso d’aver sbagliato: non dovevo lasciarmi uccidere dalla casualità, ma dovevo anticipare l’annichilimento; il poter scegliere il luogo e l’ora per staccarmi da queste rappresentazioni.
Prima che finissi ho visto la grande agonia.

Orizzonti tramutati a festa in quel tempo dove non c’è riposo.
Si spengono i corpi tenebrosi e tornano con calma sospetta. Appresso hanno la memoria più dura della pietra nera. Una memoria, quasi un’arma impropria. Un’arma da parata, lucidata.
Qual è questo giorno, qual è? Forse è quello dove non ci sono. Fosse che non ci sono mai stato, e tutto questo m’è stato raccontato? Da una voce inumana sicuramente, robotizzata tecnicamente. Voce di sintesi.
M’è stato detto che sono morto. Allora perché voglio ricordare?
….La memoria…la memoria…
Sono morto come un albero spezzato, qualcosa che quando cade fa un boato o forse sono morto in un vulcano e il fuoco eterno m’ha purificato?
Non avevo questi bisogni, non potevo chiedere questa grazie. Era troppo morire ed essere cancellato! Sono proprio morto, perché non trovo più il mio corpo. Non lo trovo perché non ho veduto o perché ho ceduto il posto a qualche prenotato, qualche neonato venuto da lontano?
Scivolando da un utero scoppiato t’ha scaraventato il mostro che t’ha generato.
Sento il vostro odore acre, oleoso. L’ultima bolla d’aria che viaggia nei miei processi spugnosi si ripugna nel farvi entrare. Sono caduto nella morte. L’ultimo atto è stato fugace, rovinoso tanto da paralizzarmi tutto: la percezione acustica è conclusa. Non posso ascoltare i convenevoli alla melassa arrivati per l’occasione.
Tu, bambino precoce hai messo il vestito nuziale della morte.

In quale oceano avete rapinato la moralità intrisa di idiozia? Sputando lardo dalla dentiera gialla ai piedi della mia salma venuta come aliante.
Su, prendete un lembo delle mie budella e iniziate a soffiare: può darsi che diventi un pallone ed inizi a volare. Tutti voi che volevate il morto perché a corto di funerali; sarete corrotti dalla mia ombra copiosa che suda ancora. Vedrete sulle vostre teste un mosaico di vita che non ha bisogno più del corpo: contenitore perverso dove la bilancia scende più dal male. Dopo questo rito ritornerete a casa con l’addome gonfio di paura e suderete olio rancido dalla pelle squamosa colma di malattie alla moda.

Un richiamo, uno spettro, un pezzo di tempo fermo nella mia carne. Io che non posso più usarti deliquio.
Questo gusto che si imbelletta per un commisto con la morte. Ultimo lembo di pneuma risale dal mio tubo digerente indecente nell’orifizio orale; svuota nell’aria, una bolla esala e si perde inseguito da spettri venduti con le flebo attaccate ai genitali.
Perenne ho urlato imbalsamando la voce.
-Si parla dentro accompagnato da un pianoforte lugubre-
In questo anticipo di corteo, nessuno è capace di recitare la sua parte. Venite, venite! Il morto è felice e alquanto imbarazzato per non vedere le vostre facce nella decenza che le definisce.
Non vi vedo!

di Roberta Pirozzi

Antologia della critica:

 

Il suo approccio alla pittura risale agli anni 60 ed ha viaggiato sempre di pari passo con l'interesse per il mondo antico. I primi anni 70 lo vedono partecipe del Gruppo archeologico napoletano; contemporaneamente si lascia trascinare nella partecipazione alle più note rassegne d'arte di quel periodo. Nel 79 ha un periodo di lunga riflessione che lo porta ad isolarsi dal circuito cittadino e a considerare l'arte come un'unità inscindibile dal tutto. Sono di quegli anni alcuni dipinti di straordinaria fattura e del tutto innovativi, e una serie di installazioni "nella terra di nessuno": mostre senza inaugurazione, dove il fruitore è colui che di esse si accorge, il passante per caso, gli animali del bosco, il perplesso boscaiolo, o qualche raro quanto inatteso visitatore. Seguono i primi libri in copia unica e un film mai girato. Verso la metà degli anni 90 gli si avvicina il mondo del teatro cittadino, e presta quindi la sua opera ad alcuni lavori di Neiwiller, Uteka, Martone, Berardinis, Cantalupo. Dal 90 al 96 riapre la valigia degli antichi trascorsi archeologici ritornando costantemente alle arti applicate, ma ridando però ad esse per sapienza personalità e inventiva, la dignità di sculture. In questi anni cambia il nome in Zao. Nel 1996 è chiamato all'insegnamento nell'Accademia partenopea e successivamente al Suor Orsola Benincasa a Napoli. Nel 2000 considerata esaurita l'esperienza didattica, ritorna al suo lavoro di sempre che nulla "sembra", e tutto abbraccia.

O. Desio


"Con Perez, Cajati, e Luca (Luigi Castellano)e non esclusa la lezione di Lipari, fu e resta tutt'oggi reale protagonista della scena dell'arte a Napoli degli ultimi 25 anni, segnandone (ognuno nella sua diversità), le 4 fondamentali direttrici; di quell'arte nata a Napoli, ma proiettata al di fuori dello schema di tradizione e di quello d'importazione di tipo Ameliano e che, come nel suo caso, si affaccia autonomamente oltre le cime delle più ardite vette delle avanguardie europee".

Renè Chart


Icone, volti mistici o enigmatici la galleria di Salvatore Vitagliano

Tra i curatori il regista Mario Martone: "Una volta viste, quelle immagini non si scordano"

È un mondo pittorico enigmatico ed a volte misterioso quello creato dall'artista Salvatore Vitagliano nella personale dal titolo "Icone", ospitata al Museo Madre ed a cura di Antonio Biasiucci e Mario Martone (via Settembrini 79, fino al 5 dicembre, tutti i giorni 10.30-19.30 e la domenica fino alle 23, chiuso il martedì).
Un progetto espositivo che, grazie ad un'idea del fotografo Biasiucci e del regista Martone calati nell'inusuale ruolo di curatori, fa conoscere al grande pubblico il lavoro, ancora poco noto, di Salvatore Vitagliano.

L'artista dal carattere estremamente riservato, originario della Valle Caudina dove è nato nel 1950, a sette anni è già a Napoli con la famiglia. Negli anni Settanta è allievo di Augusto Perez con cui condivide la passione per l'antico. Va alla scoperta, in quel periodo, con il "Gruppo archeologico napoletano", di alcune aree archeologiche campane, cominciando così a creare delle piccolissime sculture da micro-frammenti antichi (alcuni esemplari sono esposti in mostra). Si è in seguito avvicinato al mondo del teatro prestando la sua creatività in alcuni importanti progetti sperimentali partenopei. Per il regista-drammaturgo napoletano Antonio Neiwiller ha realizzato una sedia dipinta - esposta in mostra - usata nello spettacolo su Fernando Pessoa "Una sola moltitudine" (1990) - e in seguito ha collaborato anche con lo stesso Martone. Dal 1996 insegna scultura all'Accademia.

Nelle tre sale del mezzanino del Madre sono esposte una serie di opere a cui Vitagliano ha lavorato in vari momenti del suo percorso artistico, a partire dal 1984 ad oggi. Sullo scalone di accesso alla prima sala è collocato il grande lavoro, "Icona mistica" - ripreso da Mario Martone nel film "Teatro di Guerra" (1998) - insieme ad un enigmatico olio su tela, "Fanciulla in bianco" (1990-2000). Entrando nella mostra si accede ad una galleria di ritratti, il più delle volte di piccolo formato.

Sono soprattutto volti anonimi, dove la materia pittorica stratifica l'immagine per progressive velature. Volti che perdono vita per dissolvenza nel contesto da cui s'immagina siano tratti, per acquisire una nuova vitalità nello spazio pittorico. È un modo di dipingere all'antica, quello di Vitagliano. La parentela più stretta fa pensare ad i ritratti del Fayyum, la prima collezione di facce umane della storia dell'arte: tavole su cui erano dipinti a encausto volti di persone rappresentate prima o dopo la morte. I volti di Vitagliano sono un enigma. Velàzquez, Antonello da Messina o Sebastiano del Piombo ritraevano notabili, personaggi riconoscibili o alla cui identità si poteva risalire.

Il contrario di quello che fa l'artista napoletano. Le opere pittoriche di Vitagliano funzionano come una porta tra due realtà: una è quella rappresentata e visibile, l'altra un universo parallelo che si apre all'invisibile, all'ignoto. Il tempo sembra essersi fermato ma in realtà i volti anonimi si muovono nella trama pittorica quasi come fantasmi, che come scrive in catalogo Martone "una volta visti difficilmente vengono dimenticati".

Renata Caragliano


Salvatore Vitagliano, il ritratto del silenzio

Salvatore Vitagliano, pittore e scultore napoletano, incarna un’anima della città vicina più al silenzio e alla meditazione che al frastuono e all’esuberanza delle rappresentazioni che questa terra vulcanica ha imposto di sé. Vitagliano ricuce nelle sue opere quel rapporto, a un certo grado impari, tra Natura e Ragione, decantato da narratori e filosofi dell’Europa non toccata dal mare, conchiuso nella vita e nella poesia di Giacomo Leopardi e contemplato poi da Annamaria Ortese nel suo Il silenzio della ragione. Davanti alle tele di Vitagliano, spesso mi sono chiesto cosa vedessero gli occhi dei suoi ritratti fantastici, compagni più di Tommaso Landolfi che di Howard Lovecraft, e sempre dimenticavo che Freud aveva scritto del Mosè di Michelangelo, che sembra levarsi a scorgere qualcuno o qualcosa, che egli, il Profeta, non guarda chi o cosa ma siamo noi a guardare lui e, al contempo, scrutando dentro noi stessi. In questo ricorrente oblio, forse astuta, forse sciocca dimenticanza, c’è una pausa che ci avvolge, di suono e di tempo, dove lo spazio e i colori si illuminano e si rabbuiano, come se pulsassero, per poi portarci a scoprire che siamo noi a pulsare.

Vorrei chiederti qualcosa per presentarti ai lettori.

«Per esempio, potresti chiedermi: cosa pensi di quegli artisti che lavorano sui temi spirituali? Cosa pensi del dominio del concetto rispetto alle arti figurative? Oppure: il denaro è importante?».

Comincio col dire che si è appena chiusa una tua mostra al museo Madre dal titolo Icone.

«Sì, in accordo con il regista Mario Martone e il fotografo Antonio Biasiucci l’abbiamo intitolata così perché abbiamo deciso di esporre solo volti e figure, icone appunto».

Nel catalogo della mostra Mario Martone ha scritto una cosa molto bella su di te, e lo ha fatto di ritorno da Mosca, la città con la più grande tradizione iconografica del mondo, ricordando la tua partecipazione al suo bel film Teatri di guerra dove lui filma una tua opera, un retablo, presente anche nella mostra. Nell’introduzione racconta anche della tua amicizia e collaborazione con lo scomparso regista teatrale Antonio Neiwiller.

«Tra me e Antonio c’era amicizia e un’estrema fiducia. Nella mia mostra si poteva vedere una sedia che ha fatto parte di uno spettacolo di Antonio, Una sola moltitudine, e che io infatti ho esposto al Madre nelle stesse condizioni in cui era in scena: in penombra, con lo schienale rivolto alla platea perché al pubblico era permesso salire in palcoscenico e visitarlo. C’era allora una piena sintonia tra i versi di Neiwiller, quelli di Pessoa, a cui era ispirato lo spettacolo, e l’installazione che costituiva la scenografia, cioè un’armonia tra corpo, parola e immagini. Esponendola in quel modo al Madre ho voluto lasciare la vita che quell’opera aveva in sé, nella sua storia».

Pensando ai tuoi ritratti, la moltitudine e la molteplicità sono temi che riguardano anche te.

«Forse perché i volti dei miei ritratti sono un unico volto. Tutti i volti, tutti i ritratti sono una sorta di autoritratto, di riflessi, come a guardarsi in uno specchio, sono tutti frammenti di noi, i più profondi. Ma è difficile far rientrare questi concetti in una mostra oggi, le grandi mostre sono degli eventi, eventi con un tema non molteplice ma unico, che deve colpire, e subito!, lo spettatore. Si utilizzano allora opere monumentali e trasgressive che devono annullare ogni rapporto con il passato e con il futuro per colpire il pubblico lì, in quell’istante. Invece esistono opere di artisti che necessitano di un tempo più dilatato, su cui il pubblico deve soffermarsi per poterle cogliere. Ma oggi abbiamo un pubblico che in genere ha fretta e che quindi viene infastidito da opere come le mie, per la richiesta di tempo che fanno. La gente ha poco tempo per fermarsi e per pensare».

L’introduzione di Antonio Biasiucci al tuo catalogo mi ha ricordato un’immagine molto cara che vorrei condividere con te e che riguarda gli artisti. Il finale del film Il pianista di Roman Polansky, quando il protagonista ebreo fugge tra la neve di Varsavia con addosso il cappotto di un ufficiale nazista. I russi, che hanno appena liberato la città, lo inseguono e gli sparano addosso; quando lo raggiungono, capito che non si tratta di un nemico chiedono al pianista ebreo perché mai abbia quel cappotto nazista addosso, lui risponde: “Perché ho freddo”.

«Tanti artisti vivono la stessa condizione di quel pianista. Costretti ad accettare di esporre in luoghi che non sono consoni al circuito artistico o a lavorare a cose che non sono troppo dignitose per essere poi derisi, svalutati o semplicemente ignorati. Anche loro potrebbero rispondere: “Noi avevamo freddo e abbiamo preso quello che abbiamo trovato per riscaldarci!”. A volte basta guardarsi intorno per scoprire cose belle. Penso a bravi pittori come Enrico Cajati, morto dieci anni fa, penso al fatto che al suo funerale c’erano solo cinque persone e che quel giorno e nei giorni successivi non apparve nemmeno un rigo sui giornali per commemorarlo».

E’ strano, sembra che oggi il concetto di osceno si sia capovolto, spesso per il pubblico e la critica non è oscena certa arte ma gli sforzi di sopravvivenza di certi artisti.

«Infatti. Bisogna addirittura ricordare che osceno è ciò che è brutto. Il volto di un santo potrebbe essere osceno e quello di un demone no, dipende dalla qualità e dalla profondità di chi li dipinge. Io insegno all’Accademia di Belle Arti qui a Napoli e con i miei studenti cerco di fare innanzitutto dei percorsi di riflessione su ciò che è bello e ciò che non lo è, ma senza che io interferisca troppo, lasciando che arrivino da soli a certe considerazioni. Questo mi sembra l’unico modo per riportare ciò che è osceno al suo luogo naturale, fuori dalla scena, dallo sguardo, dalla convivenza con gli esseri umani».

Ho sempre visto in te, in una certa tua reticenza a mostrarti, la stessa delle tue opere d’altronde, la custodia del segreto di questa città.

«Tutte le città nascondono qualcosa. Napoli ha una forte vitalità e una storia che ci accompagna e ci insegna ancora oggi. Molti artisti vengono qui per assorbire la sua energia, forse anche per la luce che c’è, una luce stupenda, data anche dalla vicinanza del mare. Intanto c’è del fuoco sotto la città che abitiamo, che unito alle altre cose, la rende piena di meraviglie e stupori. Napoli ha una tradizione spesso incompresa o disdegnata ma che invece è bella e per niente statica; se vai a S. Gregorio Armeno, per esempio, ti rendi conto che la tradizione dei pastorai si rinnova continuamente, con tecniche svariate che attirano collezionisti da mezzo mondo. Napoli è una città che invita ad essere svelata, un suo emblema è infatti la scultura di Giuseppe Sanmartino, Il Cristo velato, che indica appunto lo svelamento necessario della città, della sua natura esoterica e misteriosa».

Allora ti chiedo: cosa ci serve questa natura altra da svelare?

«Ci serve a ritrovare noi stessi, il velo non è solo sugli altri ma anche su di noi ed è un invito a svelarsi per essere. Ma come spesso accade per le cose molto importanti, questo aspetto della città non risuona, non ha visibilità come altri suoi caratteri. In questo senso, il ruolo dell’artista è quello di svelare. Virgilio raccontò la leggenda dell’uovo nascosto sotto il Castel dell’Ovo e lo fece per dare indicazioni, per mettere in moto dei meccanismi di riflessione del nostro cervello, per lanciare un invito a incamminarsi in una certa direzione. Fermarsi a riflettere, criticamente, a questo servono i simboli, e in questa riflessione, in questa pausa, accade qualcosa che ci cambia, che ci trasforma. Forse la paura di questo cambiamento interiore spinge molta gente a disdegnare le opere che ci scrutano dentro».

Napoli è anche una città che produce tanto rumore…

«Questo suo rumore mi fa compagnia».

E tanta capacità di ridere…

«Una comicità che serve a esorcizzare il dolore. Il solo pensiero di Totò mi fa ridere e ne ho bisogno. Del resto molti comici sono persone tristi nella vita quotidiana e si mettono a far ridere sul palcoscenico proprio per sfuggire alla tristezza».

Ma c’è un legame tra la sua comicità e quella luce che tu prima dicevi essere così particolare qui.

«Sì. Per un pittore è necessario avere una giusta luce, che non deve essere troppa ma nemmeno poca, questo vale anche per la comicità, che deve essere genuina ma non stupida, forte ma non eccessiva. Napoli ha una luce precisa che favorisce la contemplazione e la visione delle cose. A Ragusa c’è una luce troppo forte, a Milano una luce grigia, a Napoli c’è la luce giusta per l’artista. Ridere, come la luce, è qualcosa contro l’oscurità, ma deve servire a farci vedere meglio le cose, malgrado la sofferenza, la bruttura e le menzogne».

Maurizio Braucci


Il volto seducente e ambiguo del «possibile»

Vitagliano, una pittura dolcissima e velenosa

Il giovane artista espone a «L’Ariete» di via Manzoni

C’è indubbiamente bisogno di molto coraggio per fare come Salvatore Vitagliano, che in questi ultimi anni ha voluto rimescolare le regole di una ricerca pittorica che egli veniva ormai conducendo con crescente sicurezza e con risultati di una qualità così alta da sembrare miracolosamente conquistata sui più ardui crinali della storia dell’arte: una qualità imperturbabile, anche quando lo scatto della fantasia, improvviso e violento, spingeva l’immagine nelle regioni abitate dalle strane creature della notte e del sogno. Anzi, proprio allora, mentre l’immagine esibiva vistosi processi di metamorfosi, risultava maggiormente evidente che la pittura di Vitagliano possedeva una sua interna spazialità, stabile ed omogenea, in cui la forma poteva di nuovo assestarsi, rivestendosi di un tessuto cromatico vibrante nell’intensità dell’impasto e nell’ampiezza del registro, ma sempre seducentemente integro.

Ora il giovane artista campano – che può a ragione essere considerato un autentico protagonista della pittura italiana dell’ultimo decennio, ben diversamente, s’intende, di quei tanto più noti suoi coetanei che gareggiano «selvaggiamente» sui circuiti del mercato, al seguito di spregiudicati manager – ha sconvolto le coordinate del suo precedente percorso, liberando lo sguardo sull’orizzonte del possibile. Ma per far ciò egli ha innanzitutto messo in questione quella «qualità» delle immagini che, proprio per la sua felice persistenza, accennava a surrogare, in funzione gratificante, la percezione del mondo delle cose.

Con le opere esposte nella galleria L’Ariete, Vitagliano ha voluto correre il rischio di una nuova avventura, poiché sapeva di aver tanto fiato da poter discendere entro gli strati oscuri della propria soggettività, nel cuore pulsante di vita da cui provengono i fantasmi dell’arte, spinti in alto dalla forza dei desideri, verso lo schermo luminoso della coscienza e dei sensi, che è poi la soglia da cui il nostro corpo s’affaccia sullo spettacolo del mondo e s’inoltra nella rete dei rapporti intersoggettivi. Lungo questo doppio tragitto, di vertiginosa immersione e di lento ritorno sulla superficie, l’artista non ha smarrito la consapevolezza della dimensione culturale dell’esperienza pittorica. Perciò questa, in Vitagliano, rimane anche oggi estranea ai luoghi comuni e banali della poetica surrealista, non è uno sprofondamento inconsulto nell’inconscio né essa s’affida all’automatismo del segno.

È piuttosto una rifondazione del senso di quella dimensione culturale, scandagliata oltre che lungo i suoi tramiti storici, nelle sue profonde radici esistenziali. Se è vero, perciò, che l’attuale pittura di Vitagliano provoca talvolta l’inquietante effetto di una fascinazione medianica o quello di una presenza enigmatica e sgradita, evocata da chi sa dove, ma nella quale infine sei costretto con disagio a riconoscerti, con le tue inconfessate ambiguità, non bisognerà meravigliarsi che essa riveli qualche singolare memoria dell’arte simbolista e romantica. Allo stesso modo, volendo ricordare, come è giusto, la più bella delle sorprendenti sculture presenti nella mostra, si dovrà osservare che questo «animale», di aggressiva eppure patetica vitalità, sembra sia uscito da un incubo dell’immaginazione, ma potrebbe arricchire i «bestiari» della scultura romanica.

Nelle opere in cui più evidente è la consonanza con i motivi simbolisti il colore passa da irregolarità e spessori materici da art brut a sottigliezze estremamente raffinate dove svariano i gialli, i verdi e gli azzurri, scambiandosi dolci tenerezze e acidi veleni. Si veda ancora come dietro le figure femminili dipinte su due grandi tele si scoraggiano misteriosi paesaggi che ora sfumano tra vapori ed umide esalazioni lacustri, ora sprondando nell’area diventata così densa, cupa e buia da provocare il ricordo, o la paura, di una morte per annegamento.

Ma vi sono altri quadri che, ad una prima considerazione, possono sembrare lontani da questa poetica che, riscoprendo un arco amplissimo e oltremodo vario di possibilità espressive, conferisce all’elemento iconico, su cui poggiano gli schemi compositivi e i ritmi formali, una grande ricchezza di significati ed eccita una risonanza psicologica nel cui cerchio è difficile non rimanere emotivamente coinvolti. In queste immagini la sostanza figurativa si direbbe svanire al di là dello schermo del quadro, dove non rimane che una fugace impronta, dove la forma appare rotta da una gestualità frenetica che esalta la luminosità del colore, facendola sprigionare dall’interno o suscitandola sulle stesse zone d’ombra, come un brillio e un fremito della pelle della materia.

Ma è facile capire che anche qui, in queste immagini che danno l’impressione di una più diretta e felice esposizione all’aria aperta, tanto da far pensare ad un ritorno alla natura e alle circostanze familiari del paesaggio campano, in realtà Vitagliano continua a comunicare il fascino di un sentimento della vita che non si esaurisce nell’emozione del presente, ma è capace di cogliere in questo gli ambigui e capziosi lineamenti del possibile.

Vitaliano Corbi

Hanno scritto di lui: Paolo Ricci, Dario Micacchi, Giorgio Seveso, Ciro Ruyu, Francesco Porzio, Vitaliano Corbi, Rosario Pinto, Aurora Spinosa, Massimo Bignardi, Mario Maiorino, Francesco D'Episcopo, Riccardo Notte, Gino Grassi, Duilio Morosini, Cesare Brandi, Mario De Micheli, Diodato Colonnesi, Roberta Pirozzi.

1960 Compie varie esperienze nella pittura informale che abbandona definitivamente nel 1965

1965 Prima personale figurativa teatro ESSE Napoli

1971 VI Rassegna d'arte del Mezzogiorno Palazzo Reale Napoli

1972 VII Rassegna d'arte del Mezzogiorno Museo Pignatelli Napoli

1972 Personale galleria "Il Gabbiano" Napoli

1973 XXI Premio Fiorino Fortezza da Basso Firenze

1974 Arte presente Antichi arsenali Repubblica amalfitana Amalfi

1974 L' uomo e la città Saronno.Invitato da Mario de Micheli

1975 Quadriennali d' arte Palazzo delle Esposizioni Roma

1976 Personale galleria "L' incontro" Napoli

1977 Disegno Italiano a Baku (URSS)

1978 Personale galleria " Antiope" Sorrento

1979 Personale galleria " Lo Spazio" Napoli

1980 V Expo Bari

1981 VI Expo Bari

1983 Personale Castello Aragonese Ischia

1990 Personale "Dea Bimota" Rimini

1990 Mostra di disegni Cataguase Brasile

1994 Inaugura una "Via Crucis" in 14 stazioni per la chiesa di S.Luca Reggio Calabria

1998 Mostra di opere sacre Conservatorio S.Pietro a Majella Napoli

1998 Personale chiesa delle Concezioniste Giugliano

1999 Collocazione de " I figliuoli dei conservatori trovati l'arme alla mano" donazione dell' artista al conservatorio S.Pietro a Majella Napoli

2000 Mostra di opere sacre chiesa S. Menna Sant'Agata de' Goti

2002 Collettiva Accademia di Francia Parigi

2002 ARTE fiera Padova

2003 ARTE fiera Padova

E' presente nel catalogo dell'arte moderna Giorgio Mondadori

2004 Nel conservatorio S.Pietro a Majella mostra permanente di sei opere sacre presso la sala Gesualdo, sala Martucci, auditorio

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